Quando Saxon sfidò Freddy Krueger, un incubo iniziato quarant’anni fa

Saxon sfida Freddy nel primo “Nightmare” con Langenkamp

Già 40 anni di un delirio geniale arrivato dal profondo della notte. Era il 1984 e Wes Craven rivoluzionò il genere di cui sarebbe diventato un maestro. Dopo mille rimbalzi da una casa di produzione all’altra, fu l’imberbe New Line Cinema a puntare sulla sceneggiatura di “A Nightmare on Elm Street”. Alla radice, gli articoli pubblicati su Los Angeles Times circa un gruppo di rifugiati del Laos assaliti da incubi talmente atroci che si rifiutavano di dormire; l’esperienza, senza diagnosi precisa, provocò la morte di alcuni di loro. «Mi domandai: E se sono stati i sogni a ucciderli? E se condividevano lo stesso incubo?».
Qualcuno aveva scucito le tasche dell’inferno- chi era stato faccia a faccia con i khmer rossi lo sapeva bene – e da lì scivolò Fred Krueger, disposto a presentare il conto ai figli di quelli che, esasperati dall’incuranza delle autorità, erano ricorsi alla giustizia fai da te per spazzarlo via dal mondo dei vivi. Perché l’uomo nero di Robert Englund – corpo ustionato, maglione a righe, Fedora, lame al posto delle dita- ha un passato umano che dà ragione a Lucio Fulci: «A far paura non è l’horror, sono i telegiornali».
Il film costò 2 milioni di dollari e ne incassò 26. Il resto è storia. Nel cast semisconosciuto, si fece largo una leggenda, John Saxon, al secolo Carmine Orrico, ovvero il tenente Donald Thompson, in bilico tra scetticismo professionale e un qualcosa di impossibile che sta risucchiando la vita di sua figlia Nancy (Heather Langenkamp). Entrambi ripresero i ruoli in “Nightmare 3 – I guerrieri del sogno” (Chuck Russell, 1987) -sequel naturale del primo – e nel metacinematografico “Nightmare 7 – Nuovo incubo” (1994), ancora con Craven saldamente alla regia.
«Durante le riprese del terzo episodio, chiesi ai colleghi le loro opinioni sulla vera natura di Freddy e scrissi un prequel concentrandomi nella realtà psicologica del personaggio», ricordava John. «Poi seppi che era già pronta la sceneggiatura del sesto!». Non sei, bensì nove titoli -esclusi reboot, crossover, serie tv- frugarono nelle pieghe del sogno, senza mai eguagliare però il Nightmare primigenio, appuntamento con ciò che non vediamo, ma intuiamo accovacciato nelle ombre, pronto ad azzannarci nei momenti di maggiore vulnerabilità.

In “Apocalypse domani” con Lombardo Radice

Di sogni ne sapevano qualcosa gli Orrico, quando lasciarono la Campania per stabilirsi nel crogiolo culturale di Brooklyn. Lì, nell’estate del 1936, nacque Carmine, mentre Roosevelt si preparava alla rielezione e la Spagna si metteva indosso le vesti da cerimoniere della Seconda guerra mondiale. Il ragazzo che aveva ereditato il nome del nonno assaporò presto il veleno del teatro. Cinque parole in italiano sdentato orientarono la bussola: «Mamma, io va in California!». Dopo l’esordio accanto a George Cukor nel 1954 (“È nata una stella”, nomen omen), arrivarono Vincente Minnelli, Blake Edwards, Otto Preminger. La fine degli anni ’50 innescò una crisi in Hollywood e molti artisti si lasciarono ammaliare dalle sirene del Vecchio continente. Anche John, risposta della Universal a James Dean, preparò i bagagli: «Le produzioni europee avevano molta più qualità, erano più mature. Inghilterra e Italia stavano facendo dei film straordinari». A Cannes, rimase folgorato da “L’uomo di paglia” di Pietro Germi (1958). Due settimane nella Roma della dolce vita perfezionarono il colpo di fulmine. Così cominciò l’avventura italiana. Ossia, male. Dire che il primo film, “Agostino” (Mauro Bolognini, 1962), ebbe alcuni screzi con la censura sarebbe un fraintendimento. Sul set de “La ragazza che sapeva troppo” (1963), invece, lo scontro fu con Mario Bava. «Scoprì che Letícia Román aveva detto che ero innamorato di lei e che, se l’avessero presa, anch’io avrei accettato il ruolo!». Se Mario avesse saputo che le mosse di judo di quell’idolo adolescente sulla spiaggia di Ostia preannunciavano “I tre dell’Operazione Drago (Robert Clouse, 1973)”! Un universo parallelo («Una volta, Bava si incazzò, vaffanculo! e salì in macchina. Ok, a domani») che visse dal giallo al poliziesco, agli ordini di Vittorio Schiraldi, il quale gli insegnò a guardare con il mento, Stelvio Massi, Alberto De Martino, Marino Girolami e soprattutto Umberto Lenzi («Non battere le ciglia! gridava»), come cattivissimo di “Napoli violenta” (1976) e “Il cinico, l’infame, il violento” (1977).
«Mi piacevano le troupe italiane ridotte, era facile fare amicizia con tutti. Parlavo molto con i cameraman, diventavamo spesso una coppia di ballo». Due esempi di questa libertà sbalorditiva agli occhi di chi una volta si era visto circondato da sacchetti di sabbia per evitare movimenti bruschi: “I tre che sconvolsero il West” (Enzo G. Castellari, 1968) e “Tenebre” di Dario Argento (1982), lezione di regia con tanto di Fedora a prova -o no- di bomba. Come quello di Freddy.

Con Maurizio Merli in “Napoli violenta”

Uomo squisito e incantevole, rimaneva a bocca aperta quando gli ammiratori ricordavano ogni dettaglio della sua carriera. «Mi chiedono autografi, ma io sono di un altro pianeta». Carmine lavorò anche con Sydney Pollack, Monte Hellman e Robert Rodríguez, in musical -Lee J. Cobb soffrì certi esercizi vocali a Bari- e serie tv che hanno modellato l’immaginario collettivo, da “Bonanza” a “Alfred Hitchcock presenta”, da “A-Team” a “CSI”, diretto da Quentin Tarantino, che lo adorava. Come biasimarlo?
Curiosità del cinema e della vita, forse la stessa cosa, non amava l’orrore né il thriller, ma incastrò le tessere della leggenda – no, non era una parola scelta a caso – con precisione mirabile. Questo significò armonizzare il duello con Marlon Brando in “A sud-ovest di Sonora” (Sidney J. Furie, 1966) con il pope dello slasher “Un Natale rosso sangue” (Bob Clark, 1974). O “Gli inesorabili” di John Huston (1960) con il caos di “Apocalypse domani” (Antonio Margheriti, 1980) e “Vendetta dal futuro” (Sergio Martino, 1986).
Bracci di ferro circondati da scorpioni, cuori strappati a mani nude, veterani del Vietnam cannibali e «1, 2, 3, Freddy viene per te» persino dallo sfasciacarrozze. Soltanto il tenente Thompson avrebbe potuto farlo.

di Yolanda Fuertes García

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