Berlenghini presenta il libro Witness 3 «Ritorno dietro le quinte del cinema per catturare la vera essenza dei film»
A distanza di pochi mesi dall’uscita di “Witness 3 – Il cinema al banco dei testimoni” (Porto Seguro Editore), l’autore Umberto Berlenghini ripercorre per “Libertà” alcune delle tappe salienti da cui trae linfa questo terzo volume: «Indagare un film significa contestualizzare il momento storico, scandagliare il costume sociale e l’ambiente cinematografico in cui è stato realizzato».
A suo parere quali svolte ha affrontato l’arte cinematografica durante l’arco temporale preso in esame da questo terzo Witness?
«A tale domanda la risposta sarebbe la stessa per ciascuno dei tre tomi di Witness. Ad essere rappresentata non è tanto un’evoluzione cinematografica, ma sociale. Una delle intenzioni di questo percorso è quella di evidenziare l’aspetto Storico, contestualizzare i film sotto il profilo culturale, sociale e politico. Ho voluto per esempio riprendere le valutazioni pastorali. Tra gli anni Trenta e Settanta, infatti, il Centro Cattolico Cinematografico emetteva le sue “sentenze” su tutti i film che uscivano in Italia secondo l’ottica cattolica di quei tempi. Non ho però voluto dare valutazioni, ho raccontato di grandi come Fellini, Rosi e Antonioni, senza per questo rinunciare al cinema dei nuovi registi».
Tra gli aneddoti e storie avvenuti sui set dei film di cui narra, ce n’è qualcuno che ricorda in particolare?
«In Witness 3 uno degli episodi che mi è rimasto più impresso è quello di Beppe Cino riguardo il set de “Il Messia” di Rossellini. Non potrò mai dimenticare le espressioni di Cino mentre mi riportava la sua esperienza in veste di assistente del regista. Rossellini gli aveva proposto di interpretare il ruolo di Gesù, ma i compagni di militanza politica di Cino sostenevano che per un uomo di sinistra non si addicesse il ruolo di Cristo, tantomeno l’essere pagato per ciò. Cino rinunciò e la parte fu assegnata a Pier Maria Rossi. Questo esempio a mio parere restituisce uno spaccato dell’ideologia politica di quel tempo e degli episodi, quasi folli, che caratterizzarono quei lontani anni Settanta».
Divertente l’aneddoto di Dalila Di Lazzaro seduta al cinema accanto ad Anna Magnani. La giovanissima attrice, invece di guardare il film, fissa Nannarella che poi la “rimprovera”. Ritiene che nel mondo cinematografico tale genuinità possa rappresentare un limite?
«No anzi, è proprio quella che cerco. Le mie interviste non sono rivolte solo ad attori e registi, ma anche a figure secondarie come scenografi e truccatori. Meno abituate alle interviste queste persone raccontano con grande spontaneità il loro dietro le quinte di un film e gli aneddoti che lì si celano. Nel caso di Dalila di Lazzaro ebbi un’intervista telefonica, fu divertente, la sua era una simpatia genuina, quasi da battutista».
Di che cosa si occupa in qualità di membro della Direzione Cinema e Serie Tv della Rai?
«Analisi del prodotto cinematografico. Ci occupiamo di visionare le proposte che arrivano: film da vedere e valutare, listini di film mai usciti in Italia o library di pellicole più datate sia italiane che internazionali».
Cosa pensa dello stato del cinema oggi, a fronte dell’affermarsi di piattaforme streaming per la fruizione cinematografica?
«È un tema sul quale sono combattuto. Sotto un certo punto di vista sono convinto che sia necessario avere a disposizione più scelte e, in questo senso, le diverse piattaforme sono un vantaggio. Ma quando le sale cinematografiche si svuotano e il pubblico diminuisce, è sempre fonte di dispiacere. È un fenomeno che ha colpito in particolare l’Italia, l’hanno chiamato “effetto Covid” ma è un problema strutturale, di cultura. Le piattaforme sono l’effetto dei tempi, ed è un bene, penso che le opzioni di cinema e piattaforma semplicemente non dovrebbero escludersi a vicenda».
Com’è maturata in lei la passione per il cinema?
«Ricordo che c’erano film vietati ai minori di 14 o 18 anni e a Todi, la mia città, i carabinieri facevano controlli nei cinema. Una volta andai a vedere “Non aprite quella porta” insieme a degli amici, eravamo tutti minorenni e il film era vietato ai 18. Proprio mentre ero seduto entrarono in sala i carabinieri, io ero il più basso tra i miei amici per cui, per non farmi riconoscere, mi dovetti accucciare sulla poltrona portando una mano alla tempia. Ho visto l’intero film rannicchiato, con la paura di essere scorto, all’epoca essere scoperto sarebbe stato non poco imbarazzante».
Ci sarà il quarto Witness? Altri progetti cinefili?
«Non ci sarà un quarto tomo, mi piacerebbe realizzare un cofanetto che comprenda i tre volumi, integrando una ventina di titoli a quelli presenti. Un nuovo progetto invece sarà la realizzazione di un libro per il cinquantenario dall’uscita al cinema di “Gruppo di famiglia in un interno”, il penultimo film di Luchino Visconti. Raccogliendo le interviste di cast, troupe e doppiatori, vi ho intravisto un ritratto di quella che era la gioventù in quei turbolenti anni Settanta».
Nel libro c’è anche una corposa scheda dedicata a “Buongiorno, notte” di Bellocchio, pellicola sul terrorismo e sul caso Moro…
«Marco Bellocchio è uno dei più illustri concittadini che avete la fortuna di vantare. Inoltre ho una grande passione per la Storia, specie quella dei nostri anni ’70. In ultimo mi piaceva ricordare la figura di Sergio Pelone. Venuto a mancare pochi mesi dopo la nostra intervista, è stato il produttore di questo film, come anche di “L’ora di religione” e “Il regista di matrimoni”».
di Martina Tamengo
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