Riecco le sorelle Lisbon, le case delle bambole secondo Sofia Coppola
Quando vedo un film di Sofia Coppola la immagino sempre come una bambina che gioca con la casa delle bambole: le protagoniste delle sue storie si muovono in ambienti eleganti, indossano vestiti raffinati, hanno amiche giovani e belle e uomini che entrano e escono dai loro spazi. Il suo gioco svela sempre diverse inquietudini (“Lost in Translation”, “Somewhere”, “Bling Ring”, il recentissimo “Priscilla”), e qualche volta sfugge di mano e finisce male, come in “Marie Antoinette”, “L’inganno” e ne “Il giardino delle vergini suicide”.
Ed è proprio quest’ultimo titolo, il primo della filmografia della regista, presentato in anteprima al Festival di Cannes nel 1999 e uscito in sala nel 2000, a tornare sul grande schermo in questi giorni nella versione restaurata in 4K da Criterion, con la supervisione del direttore della fotografia dell’epoca Ed Lachman, all’interno del progetto “Il Cinema Ritrovato” della Cineteca di Bologna
Basato sullo straordinario omonimo romanzo d’esordio dello scrittore Jeffrey Eugenides, il film, ambientato nel contesto suburbano dell’America degli anni’70, racconta la storia delle sorelle Lisbon attraverso lo sguardo corale dei tanti ragazzini stregati dal loro mistero: la famiglia è guidata dal padre Ronald (James Woods), insegnante di matematica al liceo locale e dalla rigida e cattolicissima madre Sara (Kathleen Turner), che gestisce con rigore il tempo e le attività delle cinque figlie, nate a un anno di distanza l’una dall’altra, dalla tredicenne Cecilia (Hanna Hall) alla diciassettenne Therese (Leslie Hayman) passando per Lux (Kristen Dunst nel ruolo che l’ha lanciata nell’universo cinematografico), Bonnie (Chelsea Swain) e Mary (AJ Cook). Le ragazze conducono una vita molto ritirata, costrette in abiti e comportamenti pensati per rimandare il più possibile lo sbocciare della loro sessualità. Quando Cecilia tenta il suicidio tagliandosi le vene nella vasca da bagno, i genitori vengono convinti a lasciare loro maggiore libertà dallo psichiatra che supervisiona il suo caso.
Sappiamo già dal titolo e dalle prime parole della voce off che le ragazze si uccidono, tutte quante. Quello che non sappiamo, né noi né i narratori è perché: è su questa sospensione di senso che lavora Coppola, una sospensione che ricorre in tutta la sua cinematografia. Alla regista non interessa spiegare, quanto costruire un immaginario immersivo, fatto di oggetti, atmosfere, odori, colori, nel quale lo spettatore, quello in sala e quello che sbircia le ragazze dalla finestra, possa perdersi e ritrovarsi. Non siamo ammessi alla corte delle Lisbon così come non lo saremo a quella di Maria Antonietta (peraltro interpretata sempre dalla Dunst): ma questa è la prima volta in cui Sofia Coppola ci spalanca il suo mondo, dove tutto, dalla recitazione, alla fotografia, alle musiche, alle scenografie e ai costumi, concorre a creare uno stile, un sentimento e un sentire. Nel loro biondo spiga di grano, nei loro vestiti chiari ricoperti di pizzi e trine, sembra quasi di sentire l’odore di un gruppo di ragazze che stanno diventando donne tutte insieme nel cuore pulsante di una casa troppo stretta: il luogo che dovrebbe proteggerle da tutto diventa il teatro della morte di Cecilia prima e il carcere dalla quale non si può evadere poi, dopo l’infrazione del coprifuoco di Lux.
Nella casa dove custodiscono rossetti, reggiseni, forcine, assorbenti, le sorelle diventano sacerdotesse di un culto privato e ai loro fedeli ammiratori non rimane altro che adorare i loro simulacri e sbirciare le prodezze ribelli di Lux sul tetto. Non saranno capaci di salvarle: se la famiglia le imprigiona, i ragazzi sono desolatamente deludenti e l’unica cosa su cui le ragazze riescono a avere un controllo sono le loro vite, che resteranno congelate, lasciandole immutate nel ricordo collettivo come creature immaginarie, morte nella loro adolescenza, che mai conosceranno la decadenza della mezza età.
“Il giardino delle vergini suicide” sarà in programma, in versione originale sottotitolata, lunedì 6 maggio al Jolly2 di San Nicolò.
di Barbara Belzini
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