Dieci anni senza Rocchelli. Il collettivo di Pianello cresce: “Facciamo come lui voleva”
24 Maggio 2024 05:27
Dieci anni senza Andy Rocchelli. Dieci anni in cui, però, c’è, ed è la raffica di scatti degli amici, ed è la vita “di sopravvivenza” di una mamma e di un papà, i suoi, che lottano e non si stancano. C’è, Andy, al collettivo Cesuralab di Pianello, che paradossalmente domani – giorno dopo l’anniversario dell’omicidio del fotoreporter – onora sedici anni di vita. Lo fa nel modo che sa fare: lavorando, mostrando le foto che erano la vita di Rocchelli, di soli 30 anni, e quelle che gli amici hanno fatto dopo, pensando come un chiodo fisso a come le avrebbe volute lui, e tornando per lui in Ucraina, ascoltando la gente.
“Oggi nel collettivo siamo in 17 fotografi e una ventina di ragazzi che stiamo professionalmente crescendo”, spiega Gabriele Micalizzi, una vita nelle guerre, perché non si immaginerebbe altrove ma sa immaginarsi benissimo ancora accanto ad Andy. Ci tiene a ricordare Rocchelli: “Ci ha lasciato una grande responsabilità e una grande eredità”, dice. «Il nostro motto è sempre stato “l’unione fa la forza”, oppure “Never never give up”. Mai mollare, mai. La causa comune che portavamo avanti cresce. E questo vuol dire che Andy c’è, anche se resta l’amaro in bocca al pensiero che nessuno si sia preso realmente la colpa di quel che gli è accaduto il 24 maggio 2014″.
Ci sarà un open day, a Cesura, la prossima settimana, sabato, dedicato ad Andy. Per la sua mamma, Elisa Signori, docente di storia contemporanea all’università di Pavia oggi in pensione, lui resta soprattutto Andrea. Per lui, sempre accanto al marito Rino, è andata fino al tribunale dell’Aja. Dice chiaro che suo figlio è morto ammazzato dal fuoco incrociato, ed è stato un “crimine di guerra”. Sono giorni, per lei, di telefonate: “Di solito non mi chiama quasi nessuno, poi negli anniversari tutti mi chiedono dieci secondi di audio, o tot battute per un articolo… A me sembra ormai tutto banale quel che dico”, ammette gentile. Banale in realtà non la è mai: “Dieci anni e il delitto è impunito seppure l’episodio non sia avvolto in alcuna nebbia e siano state accertate le colpe dell’esercito e della guardia ucraina. Purtroppo non c’è mai stata la reale volontà dell’Italia di chiedere verità e giustizia a un Paese reputato “amico”. Servirebbe una risposta istituzionale sia sul lato italiano che ucraino. Mio figlio era inerme… faceva solo il suo mestiere. Non ho sentito una sola parola di cordoglio dallo Stato ucraino. Anzi sembra che il caso sia capitolo di eroismo patriottico senza ombre, per l’Ucraina”.
La professoressa Signori ricorda bene le ultime telefonate del figlio: “Per i media quella in Donbass era una operazione anti terrorismo. Per mio figlio era una guerra civile. La società era polarizzata, in parte; e in parte stava a guardare. In una delle sue ultime telefonate mio figlio mi ha detto “C’è una strana cappa di silenzio”. In Donbass le diversità prima non erano percepite come un problema. Le hanno fatte diventare un problema. Volontà di disinnescare il conflitto non c’è mai stata”. Alla domanda su come si sopravviva alla morte di un figlio, risponde ferma: “Si sopravvive, ma non si vive più come prima”.
A Pavia sono diverse le iniziative dedicate in questi giorni al fotoreporter. È uscito anche un libro, con prefazione di Mario Calabresi. Si intitola “Il valore della testimonianza”. Calabresi, che si occupa di giustizia per Rocchelli da sette anni, sarà a Podenzano, al castello, il 10 luglio, alle 21.30. Parlerà del libro “A occhi aperti”. Per Andy e quelli come lui, giornalisti uccisi sul lavoro tra le guerre del mondo, nessuno dovrebbe mai chiudere gli occhi.
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