“L’isola misteriosa” fa capire l’esplorazione nei videogiochi
Nel 1865, cinque uomini (Cyrus Smith, Gideon Spilett, Nabucodonosor, Bonadventure Pencroff e Harbert Brown) e un cane fuggono dall’assedio di Richmond utilizzando un pallone a gas, ma una tempesta li trascina lontano, in mezzo all’oceano. Per miracolo il pallone ormai sgonfio li deposita su un’isola, che i naufraghi ribattezzeranno a breve Isola Lincoln. I cinque uomini esplorano progressivamente il territorio, scoprendo al suo interno un grandissimo numero di risorse utili, che impiegano per migliorare man mano le loro condizioni di vita. Se all’inizio possono solo mangiare molluschi e uova crude, al freddo ed esposti alle intemperie, col tempo creano una piccola casetta nella roccia, in cui sedersi a fumare la pipa davanti al fuoco quando fuori infuria la bufera. Nel frattempo – mentre intorno a loro si verificano alcuni eventi inspiegabili – creano recinti per le bestie, voliere per uccelli, campi di grano e molto altro.
Quanto scritto qui è la prima parte del romanzo “L’isola misteriosa” (1875) di Jules Verne, ma potrebbe benissimo descrivere la situazione di molti videogiochi. Un personaggio (o un gruppo di personaggi) giunge in un luogo sconosciuto, di cui inizialmente gli è nota solo una piccola parte. Nel corso del tempo esplora progressivamente l’ignoto, andando al tempo stesso a domesticare la natura che lo circonda, a crearsi degli utensili con cui sopravvivere e molto altro. All’inizio ciò che si può fare è alquanto limitato, ma col passare del tempo si hanno a disposizione sempre più opzioni, man mano che si trovano ulteriori risorse, si fabbricano nuovi oggetti e quant’altro. In alcuni casi c’è un loop ben scandito alla base di tutto ciò: scoprire nuove risorse consente di fabbricare nuovi oggetti, che consentono di raggiungere nuove aree, in cui si trovano nuove risorse, ecc. In altri casi, invece, il rapporto è meno diretto e l’esplorazione è più libera, ma nel complesso sono riscontrabili le stesse strutture di base.
C’è, inoltre, un confine invalicabile, oltre cui si trova ciò che non può essere raggiunto o esplorato. Può essere il mare, se ci si trova su un’isola, o un muro invisi-bile a un certo punto del mare (se è possibile esplorarne una parte), ma può anche trattarsi di qualcosa di differente, come il grande crepaccio che segna parte del confine in The Legend of Zelda: Breath of the Wild (2017). Prendendo quest’ultimo come esempio, all’inizio dell’avventura ciò che è noto a Link è molto poco: si è risvegliato in una grotta su un altopiano, da cui inizialmente non è possibile scendere. Nei primi momenti di gioco ciò che si conosce è l’altopiano, uno spazio relativamente ampio per questa prima esplorazione, ma delimitato da confini specifici. Un’area tutorial, in cui poter sperimentare il funzionamento del gioco senza eccessive difficoltà lungo la strada. E, da questa zona iniziale, già è possibile guardarsi intorno, osservando molti dei territori che diverranno a breve esplorabili. Appena ottenuti gli strumenti necessari, il mondo di gioco si apre e ci si trova davanti un vasto ignoto, che viene progressivamente esplorato e “domesticato”. Ciò che all’inizio costituisce un difficile ostacolo, una sfida insormontabile, dopo un po’ diventa qualcosa di ben più affrontabile, man mano che si prosegue e ci si rafforza. Resta però sempre un confine che non può essere superato, che racchiude le terre di Hyrule nel loro insieme, e che costituisce il limite della mappa di gioco.
di Francesco Toniolo
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