Andando oltre il vuoto e il silenzio: l’evoluzione dei mondi videoludici

«Il silenzio entrò nella città di primo pomeriggio». Sono le parole con cui Italo Calvino introdusse un suo testo sul pittore fiorentino Fabio Borbottoni, specializzato nel rappresentare una Firenze deserta o attraversata solo da pochi passanti. Calvino insiste sul binomio tra il vuoto e il silenzio. Il primo è abitato dal secondo; il secondo dà forma al primo. L’autore sviluppa un discorso similare anche in un altro suo testo, Viaggio nelle città di de Chirico (1983), in cui immagina di trovarsi all’interno di uno dei quadri realizzati dal maestro della pittura metafisica. Anche in questo caso, il vuoto e il silenzio dominano la scena cittadina. Sono presenti solo due piccole figure in lontananza, ma non è possibile ascoltarle, è solamente possibile avanzare delle ipotesi su quel che si stanno dicendo.

A suo modo, questo è anche un discorso fortemente videoludico. Il mondo dei videogiochi si è sempre trovato davanti a un grande interrogativo, su come poter popolare quegli spazi – soprattutto urbani – che andava a rappresentare al suo interno. Degli spazi che inizialmente erano solo simbolici, per la limitatezza tecnica dei mezzi. Per cui un cerchio poteva rappresentare una caverna e un quadrato un grattacielo, a seconda della convenzione presentata nel singolo videogioco. Poi, gioco dopo gioco, si è vista una rapidissima evoluzione. Città e villaggi hanno iniziato a delinearsi, restando tuttavia spesso degli ambienti in larga parte vuoti. Magari si trovava una taverna brulicante di vita, come unico luogo “pieno” in una città dalle strade deserte e con le porte degli altri edifici sbarrate, per evitare di dover immaginare anche la restante parte di quell’ambiente.

La sfida al vuoto e al silenzio è stata combattuta nel corso del tempo e il videogioco ha registrato più di una vittoria, riuscendo ben presto a inserire degli NPC (Non-Player Characters), i personaggi che non vengono controllati dal giocatore, che gironzolavano per le vie della città, spesso senza avere molto da fare.
Passeggiavano avanti e indietro e, se interrogati, rispondevano sempre con la stessa frase, ma era un modo per dare un senso di pienezza a quel mondo urbano. Oggi il comportamento di questi NPC è molto più complesso e raffinato, rispetto a quei primi tentativi. I videogiochi di fascia alta, i più costosi da produrre, possono contare su raffinate intelligenze artificiali e su una costante ricerca del realismo. Nonostante ciò, basta sempre poco per guardare sotto la superficie e rompere quel fragile realismo. È per esempio l’operazione portata avanti dal collettivo Total Refusal con il loro documentario Hardly Working, che mostra il mondo del lavoro nel videogioco Red Dead Redemption II di Rockstar Games, più e più volte lodato per il suo grande realismo. Eppure, se si osservano da vicino e con costanza i gesti di questi NPC lavoratori, ci si rende conto di quanto sia bizzarra e innaturale la routine che portano avanti, come il carpentiere che pianta sempre due chiodi nello stesso, identico punto. Davanti a simili epifanie ci si rende allora conto che, sotto alla (pur brillante e meravigliosa) patina di superficie, le città videoludiche sono ancora luoghi immersi nel vuoto e nel silenzio. Come le città di de Chirico che Calvino fingeva di esplorare, solo con un gran numero di NPC al posto delle statue che abbondavano in quei quadri.

di Francesco Toniolo

© Copyright 2024 Editoriale Libertà