Torna Squid Game: la serie televisiva che scruta la nostra natura più oscura

DOPO LO STRAORDINARIO SEGUITO DELLA PRIMA STAGIONE CON 126,2 MILIONI DI VISUALIZZAZIONI, ECCO LA SECONDA SU NETFLIX

126,2 milioni di visualizzazioni in neanche due settimane. È questo lo straordinario risultato raggiunto dalla seconda stagione di “Squid Game”, la serie tv targata Netflix scritta, diretta e ideata dall’autore sud-coreano Hwang Dong-hyuk, e che si conferma la più vista di sempre sulla piattaforma over-the-top.

Dopo una prima season che aveva riscosso enorme successo tra gli spettatori – non senza qualche critica, in particolare per i contenuti piuttosto violenti presenti nella serie – “Squid Game” si conferma un prodotto che continua ad avere grande presa sul pubblico, forse proprio per i temi drammatici che va a toccare.

Ma partiamo con ordine: di cosa parla “Squid Game”? La prima stagione, ambientata a Seul, segue le vicende di Seong Gi-hun – un ludopatico divorziato e pieno di debiti – che vive in uno dei quartieri più poveri della città. Dopo aver vinto ad un gioco d’azzardo contro uno sconosciuto in una stazione della metropolitana, viene invitato a prendere parte su un’isola ad una gara misteriosa (gli Squid Game, appunto), composta da sei giochi per bambini, con l’obiettivo di vincere un’importante somma di denaro. Insieme a lui, vengono coinvolte altre 455 persone che, nel corso della stagione, si scopriranno essere lì per le stesse ragioni di Seong Gi-hun: soffocati dai debiti e costretti a vivere ai margini della società, il gruppo cerca negli Squid Game una sorta di riscatto. Tuttavia, il prezzo da pagare è la propria vita: infatti, nel caso in cui i partecipanti falliscono le sei diverse prove, vengono eliminati fisicamente da un gruppo di persone dal volto coperto, facendo salire, di conseguenza, il montepremi in palio.

La prima stagione si conclude con la vittoria di Seong Gi-hun – oltre ad una serie di colpi di scena, che non riveleremo qui – che sarà l’unico sopravvissuto di questo “gioco al massacro”, intascando una cifra pari a 45,6 miliardi di (che corrispondono a circa 30.000.000 di euro).

La seconda season, invece, parte a due anni di distanza dalla vittoria del protagonista il quale, nonostante sia stato invitato a lasciare il Paese dall’organizzazione dietro gli Squid Game, decide di mettersi sulle loro tracce per far sì che nessun altro partecipi a questa competizione fatale. Esattamente come nella prima stagione, anche “Squid Game 2” lavora strenuamente su quelle che sono le abissali differenze sociali ed economiche che interessano la Corea del Sud: sebbene queste tematiche siano state già esplorate con grande attenzione e durezza in una pellicola tanto straziante quanto preziosa come “Parasite” (2019) di Bong Joonho – vincitore di quattro Premi Oscar nel 2020, tra cui Miglior film e Miglior film straniero – “Squid Game” pone l’accento sulle diverse piaghe che si sono abbattute sulla Corea negli ultimi decenni, a partire dalla profonda crisi economica che ha colpito tutti i Paesi del mondo a partire dal 2008.

In particolare, questa seconda stagione si concentra sulla corsa sfrenata e senza controllo nei confronti di cripto-valute e di investimenti all’apparenza golosi (vere e proprie truffe finanziarie), che hanno spinto milioni di persone sull’orlo del baratro e divorate dai debiti.

Se la prima stagione era soprattutto una feroce critica al capitalismo (e dunque l’autore ha preferito esplorare una dimensione “macro” della realtà che ci circonda), il secondo lavoro di Hwang Dong-hyuk si concentra sulla dimensione “micro”, andando a scandagliare quanto può essere oscuro e cupo l’animo umano, incapace di comprendere quanto sia prezioso il bene più grande in suo possesso: la vita. Non a caso, infatti, il primo episodio di questo atto secondo si chiama “Pane e lotteria”, quasi a voler strizzare l’occhio al detto latino “panem et circenses” a cui la “plebe” – qui metaforicamente rappresentata da un gruppo di anime disperate, pronte a tutto pur di sopravvivere – viene costretta a genuflettersi appagando i desideri più atroci e sadici di una classe di insulsi privilegiati (l’organizzazione dietro gli Squid Game).

Se nel primo “Squid Game” gli spettatori, esattamente come Seong Gi-hun, sono “impreparati” di fronte alle prove (Cosa vuoi che accada? Sono solo giochi per bambini!) e osservano inermi l’andamento delle stesse, sperando che tutti, prova dopo prova, riescano a sopravvivere, in questa seconda parte viene quasi naturale domandarsi: perché tutto questo? Quanto un essere umano è disposto a spingersi pur di trovare un’illusoria felicità nel denaro, anche a scapito della propria vita? La conclusione del terzo episodio di questa seconda stagione, intitolato “001”, è probabilmente uno dei più agghiaccianti, e al contempo lucidi, in questo senso: dopo aver scoperto la reale natura dei giochi, dove in ballo è la propria vita, tutti i partecipanti vengono invitati a votare per decidere se continuare o concludere la sfida. Nonostante le continue avvertenze da parte di Seong Gi-hun e il terrore di fronte all’eliminazione fisica di buona parte dei concorrenti, il voto (sul filo di lana) procede a favore della continuazione dei giochi. In fin dei conti, sono solo giochi per bambini, no? A tal proposito, il nome stesso della serie si ispira al gioco del calamaro, un popolare gioco per bambini, molto praticato in Corea del Sud fin dagli anni Settanta – e non a caso, è una delle prove a cui vengono sottoposti i concorrenti.

Parlando di ispirazione, ci sono diverse teorie che circolano online rispetto a ciò che avrebbe influenzato la struttura e la storia stessa di “Squid Game”: la più accreditata è quella secondo cui la serie televisiva alzerebbe il velo su una delle pagine più oscure della storia contemporanea della Corea del Sud. In vista di un significativo potere economico raggiunto dal Paese negli anni Ottanta, e complici i Giochi Olimpici del 1988, il governo sudcoreano attuò una serie di manovre affinché l’immagine nazionale venisse ripulita il più possibile e fosse presentabile agli occhi del mondo in vista di questi impegni internazionali.

Peccato che queste operazioni di “pulizia” consistessero, in realtà, in veri e propri atti di repressione nei confronti di persone senza fissa dimora, personaggi scomodi e persino persone con disabilità. Fu così, infatti, che in quegli anni sorsero le prime “Brothers Home”, ossia strutture idealmente pensate per essere centri di formazione e reinserimento sociale, che presto si trasformarono in luoghi di soprusi e violenze, in cui persero la vita più di 600 persone. Tuttavia, Hwang Dong-hyuk non ha mai confermato di essersi ispirato a questa oscura vicenda nazionale, ma nelle tante interviste rilasciate in questi anni ha sempre dichiarato di essersi fatto influenzare da due opere importanti della letteratura orientale contemporanea: “Battle Royale” (1999) dello scrittore nipponico Koushun Takami e il manga “Liar Game” (2005-2015) di Shinobu Kaitani. In particolare, il primo – divenuto nel tempo persino un genere videoludico, da cui hanno preso vita i vari “Fortnite” e “Apex Legends” – narra le vicende di un gruppo di adolescenti che, scelti in modo casuale, viene catapultato su un’isola da cui è impossibile scappare e a ciascuno viene affidata un’arma; i giovani saranno costretti a uccidersi a vicenda finché non resta un unico superstite. Da “Battle Royale”, “Squid Game” recupera la volontà di riflettere sulle strutture sociali e parasociali che guidano l’essere umano, ma soprattutto sulla sua capacità di aggirarle pur di far valere il proprio “io” – che è ben lontano dal puro e semplice spirito di sopravvivenza. Consigli di lettura assicurati, se si vuole comprendere a fondo la natura oscura, ma potente, di una serie come “Squid Game”.

di Fabrizia Malgieri

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