The Land of the Free and the Home of the Brave: XIII Emendamento

Sapete quando si dice di un’opera che è ancora attualissima? In questi giorni in cui tutto il cinema afroamericano sembra girato domani, “XIII Emendamento” (“13th”), documentario del 2016 della regista Ava DuVernay, disponibile su Netflix, ripercorre mirabilmente la storia (e la rappresentazione) degli afroamericani negli U.S.A. Senza la presunzione di essere esaustiva, vi racconto quello che ha colpito me.

Il XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che entrò in vigore nel 1865, abolisce la schiavitù tranne (attenzione) che in caso di reato. E quindi cosa credete che sia accaduto alla fine della guerra civile americana, quando tutto il sud si trovò deprivato di una enorme e gratuita forza lavoro? Gli afroamericani vennero arrestati in massa per continuare a garantire la suddetta forza lavoro.
Nel frattempo prendono corpo, a partire dal 1876, le cosiddette leggi Jim Crow, che istituiscono la segregazione razziale e il famoso “separati ma uguali”.

Per capire meglio il clima che si continuava a respirare cinquant’anni dopo, nel 1915 esce “Nascita di una nazione” di David Ward Griffith, uno dei maggiori incassi della storia, che mette in scena il “negro” cattivo che minaccia le donne bianche e di fatto è responsabile della rinascita del Ku Klux Klan di quegli anni.
Altri rigurgiti del Klan ce li ha mostrati recentemente Spike Lee con “BLACKkKLANSMAN” nel 2018, ma Spike ci sbatte in faccia questa realtà da sempre, “Fa’ la cosa giusta” è del 19189.

E mentre ovviamente gli afroamericani scappano in massa dagli stati del sud, non hanno diritto di voto, tutto ciò che è pubblico è diviso in luoghi separati, comincia un movimento attivista, i cui esponenti si fanno arrestare per protesta: la decisione di Rosa Park di non cedere il proprio posto in autobus a un bianco è del 1955, “I have a dream” di Martin Luther King è del 1963, ma anche l’attentato di Birmingham in Alabama, che uccise quattro bambine afroamericane, è del 1963, pochi mesi prima di quel discorso. Il Civil Rights Act, che dichiara illegale la segregazione razziale, viene approvato nel 1964. Kennedy viene ucciso prima di arrivare a firmare il Voting Right Acts, che fu firmato da Johnson, nel 1965, dopo le marce di Selma, raccontate in un film del 2014 della stessa DuVernay.

Ma nel 1970, con l’arrivo di Nixon alla Casa Bianca su una feroce campagna contro la criminalità e la droga condotta al suono di “Law and order” (viene da qui lo slogan di Trump, non dalla famosa serie televisiva), cominciano le incarcerazioni di massa degli attivisti dei movimenti neri (e degli hippies notoriamente comunisti). Slancio conservatore raccolto prontamente da Ronnie Reagan nel 1982, che, in un momento di grande povertà e crisi economica, pensa bene di concentrare tutte le sue risorse nella guerra alla droga, con pene molto severe sempre e solo nei confronti degli afroamericani e dei latini.

A proposito dei latini, una delle scene più rivelatrici su quello che ti può accadere negli USA se non hai la pelle del colore giusto viene da “Il corriere” di Clint Eastwood, dove, nel tentativo di arrestare appunto il corriere della droga, la DEA ferma un messicano che ha semplicemente la stessa macchina del ricercato: l’uomo scende terrorizzato, continuando a ripetere: “Statisticamente questi sono i cinque minuti più pericolosi della mia vita”.

Nel 1989 accade un orribile fatto di cronaca: a seguito di una notte di disordini e violenze a Central Park, quattro ragazzini neri e un ispanico vengono ingiustamente accusati di aver picchiato e stuprato una giovane jogger bianca. Soli, spaventati, giovanissimi, i ragazzi confessano qualsiasi cosa dietro la falsa promessa di tornare a casa. E sulla base di queste maldestre confessioni, in assenza di qualunque prova fisica, e con la vittima gravemente provata e priva di ricordi dell’accaduto, vengono condannati. Dopo la confessione del vero colpevole I giovani sono stati pubblicamente riabilitati nel 2002 e immortalati ancora dalla DuVernay nella miniserie “When They See Us”, sempre su Netflix.

 

Nota a margine: il Donald Trump del 1989 compra una pagina sul New York Times per chiedere la pena di morte per i 5 ragazzi.

Non si migliora con il ritorno dei democratici, perché negli anni ’90 per vincere Clinton si sposta al centro mantenendo un pugno duro sul crimine, sottoscrivendo una serie di provvedimenti, tra i quali il celeberrimo “Three strikes and out”, ovvero al terzo crimine finisci in galera per sempre, le pene minime obbligatorie, che tolgono potere ai giudici e lo danno ai pm, l’eliminazione della possibilità di uscire sulla parola, di fatto sbilanciando totalmente il potere giudiziario in favore di chi si può permettere di pagare la cauzione. Un racconto magnifico di queste leggi e del loro effetto sociale si trova in “The Good Fight”, bellissima serie scritta magistralmente da Michelle e Robert King, spin off dell’altrettanto pregevole “The Good Wife”. La serie è un prodotto CBS, reperibile in Italia su Tim Vision.

Sempre in quegli anni, il Federal Right Bill espande le prigioni e le cede in gestione ai privati, che sfruttano il lavoro dei carcerati: il racconto più interessante su questo tema ovviamente è in “Orange Is The New Black”, ispirata alle memorie di Piper Kerman, che si trova su Netflix. Essendo ambientato in una prigione, OITNB è anche un grandissimo contenitore di storie di abuso di “controllori” che non vengono controllati, e, pur dedicando un’intera stagione al tema, è una serie completamente incentrata sul Black Lives Matter, perché gli afroamericani, e i latini, sono al centro del racconto carcerario.

Aggiungo un ultimo titolo di questi ultimi anni che ci aiuta a capire qualcosa in più di quello che sta accadendo oltreoceano è “Detroit” di Kathryn Bigelow, ispirato alla rivolta del 1967 e interpretato, tra gli altri, da John Boyega, Finn dell’ultima trilogia di Star Wars, volto notissimo sceso in piazza a manifestare in questi giorni (John Boyega, you are our hero, ha scritto l’account ufficiale di Star Wars su Twitter).

Adesso Clinton dice che le leggi degli anni ‘90 furono un errore, ma, sottolinea la DuVernay con grafiche schiaccianti durante il documentario, tra il 1979 e il 2014 la popolazione carceraria aumenta da circa 300.000 unità a 2 milioni e mezzo, di cui quasi 900.000 afroamericani. Ovviamente i detenuti non hanno diritto di voto. E si torna all’inizio, ad essere schiavi.

Sono tanti i testimoni che la DuVernay raccoglie e intervista (tra loro una favolosa Angela Davis) e le loro parole sono impressionanti: “Quasi un genocidio”, “La razza è da sempre al centro della politica americana” “Il dissenso nero è sempre stato distrutto, la leadership decapitata”.

E nel frattempo Emmett Till Rodney King, Oscar Grant, Trayvon Martin, Michael Brown, Eric Garner, alcuni sono solo bambini: nel 2013 nasce Black Lives Matter, che è un movimento diffuso, senza un leader unico, e quindi non può essere distrutto. E qual è il suo unico grande vantaggio? I telefonini con la telecamera, e una rete mondiale alla quale mostrare quello che può succedere in 8 minuti e 46 secondi.

Trailer XIII EMENDAMENTO

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