Scrivere di cinema e cibo schivando i buoni sentimenti di “Chocolat”

Tra le grandi mode dei nostri anni, in ogni schermo televisivo, in ogni cellulare, anche nel cinema il cibo ha un suo ruolo definito e raccontato mille volte, da “Il pranzo di Babette” a “Chocolat” a “Mangia Prega Ama” a “Ratatouille”: il cibo visto come EPIFANIA emozionale, risveglio del corpo e dei sensi, grande panacea universale.
Io sono pessima, non cucino non faccio il pane e se sono da sola mi dimentico quasi di mangiare quindi, quando recentemente mi hanno chiesto di partecipare ad un evento a tema cinema e cibo, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata Glenn Close che fa uno stufato del coniglietto della figlia di Michael Douglas in Attrazione Fatale.
La seconda è stata un percorso sulle ossessioni, su cibo e ossessione, sul cibo come elemento terzo in una relazione, sul cibo elemento contaminante della purezza del corpo, sul cibo fonte di vita ed elemento salvifico.
Ci sono due film italiani che per motivi diversi ho molto amato che affrontano esattamente questi temi.

Primo amore di Matteo Garrone, del 2004 (prima di “Gomorra”, de “Il racconto dei racconti”, di “Dogman”, prima di Garrone come lo conosciamo tutti), è uno dei migliori film italiani degli ultimi vent’anni, un titolo poco conosciuto del quale non si è parlato abbastanza: tratto dal libro “Il cacciatore di anoressiche” (una storia vera, lo scrittore Mario Mariolini è in carcere per avere ucciso l’ex fidanzata un anno dopo la pubblicazione del libro) Primo amore racconta la storia devastante e devastata di Vittorio e Sonia (magnifici Vittorio Trevisan e Michela Cescon). I due si incontrano tramite un annuncio (e non era neanche il secolo scorso) e iniziano a frequentarsi.

La prima cosa che Vittorio dice a Sonia è “Pensavo fossi più magra” (ho sempre pensato che fosse un’ottima tagline) e Sonia, invece di girare sui tacchi o sulle sneaker, lo asseconda e accetta le sue ossessioni sulla magrezza fino a mettere a rischio la propria vita.
Film tossico, profondo, chiuso, claustrofobico, teatrale nella storia nei dialoghi nei due protagonisti, personaggi cupi, che parlano poco, che si portano tutto sulle spalle, Primo amore mette in scena la duplice patologia della relazione vittima e carnefice e, in una metafora di triangolo amoroso dove il terzo incomodo è il cibo, i carboidrati negati da Vittorio e bramati da Sonia. Vittorio, che fa l’orefice e cerca la purezza assoluta del materiale, l’essenza primitiva, il corpo privato delle imperfezioni della carne, si trasforma nel carceriere di Sonia.

Ed è proprio lì che si trova la sua bellezza, in quella riuscita rappresentazione della malattia, come fa un altro film italiano analogo e contrario, “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo del 2014, con Alba Rohrwacher e Adam Driver, per questo film premiati entrambi con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione al Festival del Cinema di Venezia.
Hungry Hearts, anche questo tratto da un libro, “Il bambino Indaco” di Marco Franzoso, è un altro film dove il corpo è il personaggio centrale: Jude e Mina si incontrano a New York, che è la location del film, restando bloccati nel bagno di un ristorante cinese. Si piacciono, si frequentano, vanno a vivere insieme, lei viene trasferita in Italia, lui per non farla partire la mette incinta (a proposito di violenza e gelosia e possesso). Lei la prende comunque bene perché i due in effetti si amano: fino a questo punto non si è mai vista la Rohrwacher sorridere tanto in un film, è quasi un peccato che poi viri verso il dramma. Infatti Mina ha dei disturbi alimentari e la gravidanza accentua le sue ossessioni di purificazione, non mangia, non vuole ecografie, e quando nasce il bambino lo nutre di oli e semi e si chiude in casa per proteggerlo da contaminazioni esterne. Ovviamente il bambino ne risente, non cresce e da qui Jude comincia una doppia vita, esce di nascosto, lo nutre di nascosto, mentre Mina innalza il proprio livello di controllo fino all’inevitabile escalation che porta verso un finale che è l’unica cosa che non mi convince appieno in un film apparentemente perfetto.

Hungry Hearts non è solamente un film claustrofobico, è girato in modo claustrofobico, si apre raramente, sta sempre addosso ai protagonisti, inquadrandoli da molto vicino, distorcendoli addirittura, usando lenti deformanti per riprendere teste enormi e corpi scheletrici, a sottolineare la morbosità dell’ossessione e la tossicità dei sentimenti, il troppo amore di Mina per il marito e il figlio, di Mina che chiede a Jude la fiducia cieca che è propria dell’amore. “Perché non possiamo essere solo noi tre?”. E sono solo tre, infatti, in scena sempre: Mina, Jude e il bambino senza nome.
Sia Primo amore che Hungry Hearts sono opere inquietanti, con una sottile vena horror: il primo è molto più crudo e violento, il secondo invece inserisce un livello di sentimenti che ne ammorbidisce i toni, lavora sul troppo amore e lo mostra, accentua l’intimità familiare, la dolcezza del contatto fisico dei genitori con il bambino, i gesti morbidi, le mani intrecciate.
E il cibo in tutto questo è un vero personaggio terzo, che scatena reazioni forti: il disgusto di Mina davanti alla bistecca preparata dalla madre di Jude, la bramosia di Sonia per il pesce che Vittorio mangia al ristorante, il cibo è sempre nella testa dei protagonisti (e di noi spettatori) anche quando non è in scena.

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