Il “vino con i riccioli” di Andreana Burgazzi (Baraccone)
Di Giorgio Lambri 02 Maggio 2021 13:02
Un vino può avere i riccioli? Quello di Andreana Burgazzi li ha. E non c’entra la capigliatura, perché i riccioli sono prima di tutto uno stile di vita e scostandoli delicatamente dalla fronte di chi li porta, spesso se ne può intravedere l’anima. Rappresentano la vivace curiosità ma anche la testarda determinazione di chi li “indossa”.
Prendete “Filiblù“, che considero il più geniale vino dell’Azienda Agricola Baraccone, un intrigante rosso prodotto con uve passite di Cabernet Sauvignon, che deve il suo nome al colore che assumevano i fili a cui veniva appesa l’uva ad appassire. Solo una vignaiola perennemente desiderosa di sperimentare nuove idee, anche se apparentemente bizzarre, poteva inventarselo e produrlo (solo nelle annate propizie).
Evoca l’immagine di una scultura neoclassica, a cominciare dal colore: un austero e impenetrabile rosso granato. La flemmatica discesa nel bicchiere ne testimonia la consistenza. L’impatto olfattivo è poderoso, con frutti di sottobosco, prugna e ciliegie, ma anche note balsamiche e tabacco. Il sorso è vellutatamente opulento, pieno, esaltante. Uno dei tanti capolavori delle terre rosse di questa zona della Valnure.
“Sulle carte geologiche questa fetta di territorio è indicata con un colore rosso più scuro – spiega la vulcanica vignaiola – e questa caratteristica del terreno, che in estate si scalda fino a creare vere e proprie crepe, la si ritrova in termini di “potenza” nel vino. Non a caso il Gutturnio frizzante di quest’anno sfiora i quindici gradi”.
Andreana Burgazzi approda a questo mestiere quasi per caso, fino a vent’anni era totalmente astemia.
E poi?
“Papà mi iscrisse a mia insaputa a un corso di enogastronomia ed abbinamento di cibi e vini, l’assaggio del primo bicchiere fu una vera folgorazione. Ma l’idea di occuparmi a tempo pieno delle vigne dei nonni era ancora lontana, tanto più considerando che io mi sono laureata in Lettere con l’intenzione di fare la giornalista e sono stata anche corrispondente di Libertá da Pontedellolio. Poi mi sono iscritta a un corso di informatica e per un certo periodo ho fatto la programmatrice di computer”.
Insomma, quando e come è arrivata al suo attuale mestiere?
“Sono stata contagiata dalla passione di mio papà per il vino e all’inizio degli anni ‘90 quando ci siamo trasferiti qui a Castione, acquistando la casa dell’ex calciatore Malgioglio, ho cominciato a lavorare part-time nelle vigne. Con il tempo ha preso sempre più corpo l’intenzione di farlo diventare un mestiere a tempo pieno. Il nostro primo imbottigliamento è datato 1995, un Gutturnio fermo, ricordo che i primi ristoratori a darci fiducia furono la Locanda del Falco e Picchioni”
Andiamo avanti…
“Con il passare delle stagioni la produzione si è arricchita, nel 1998 abbiamo imbottigliato il nostro primo bianco: una Malvasia frizzante, poi – anno dopo anno – siamo andati a creare la nostra attuale offerta di bottiglie”.
Quale è il vino in cui si riconosce di più?
“Tutte le nostre etichette sono state per me piccole conquiste, ma se proprio devo scegliere, dico la Malvasia ferma e quella passita (che si chiamano rispettivamente Parelio e Praedulce) perché la loro realizzazione è stata frutto del mio incaponirmi contro il parere di molti e sono contenta di averlo fatto perché credo che sia questo il vitigno su cui Piacenza dovrebbe puntare con più decisione”.
Proprio a proposito della nostra Malvasia di Candia aromatica, che cosa pensa dell’iniziativa recente di ristoratori, baristi e suoi colleghi vignaioli di dedicare il mese di giugno a questo vitigno, proponendo i vini territoriali in carta, ma anche al bicchiere nei bar per l’aperitivo?
“Ne penso tutto il bene possibile, perché sarebbe finalmente ora di credere nei nostri vini. E invece noi piacentini (prima di tutti) siamo prevenuti e paradossalmente all’aperitivo preferiamo bere del modesto Prosecco o un Lugana piuttosto che un vino dei nostri colli, qualitativamente migliore. La produzione del territorio è sempre più qualificata, ma dovremmo iniziare a convincercene noi per primi, se vogliamo poi farla conoscere bene fuori dai confini provinciali”.
I suoi vini hanno nomi molto particolari, ad esempio il Cabernet Sauvignon “T’al dig me”…
“In genere li decido io, ma dopo un “serrato” confronto con i miei familiari e collaboratori. “T’al dig me” è dedicato a mio papà, che voleva convincermi di ogni cosa e per farlo usava questa tipica frase dialettale. Ma – per esempio – Parelio nasce da una gita al mare: con mia figlia stavamo osservando quei dischi luminosi che a volte appaiono, come aloni, a destra e a sinistra del sole. Non ricordavamo come si chiamassero, allora mia figlia consultò Google sul telefonino e quando saltò fuori questa parola, Parelio, fummo subito d’accordo che era un bellissimo nome per un vino”.
È vero che non manda più i campioni dei suoi vini alle guide enologiche?
“Sì, è vero, da quest’anno ho smesso di farlo. E vuole sapere perché? Credo che la valutazione dei vini piacentini subisca un assurdo preconcetto. Altrimenti non si capisce come mai, ad esempio, non sia mai stato premiato con i “tre bicchieri” del Gambero Rosso un Gutturnio fermo del nostro territorio. Il fatto è che non siamo capaci di farci rispettare o forse non ci crediamo abbastanza, comunque io ho deciso di non prestarmi più a questo gioco”.
Uno dei massimi esperti del vino piacentino, il professor Mario Fregoni, in un’intervista su queste pagine auspicava per un vero salto di qualità che anche la nostra produzione aderisca al modello francese dei cru, lei cosa ne pensa?
“Concettualmente sono totalmente d’accordo, ma credo che la strada da percorrere per arrivarci sia ancora molto lunga”.
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