Il cuore gelido di “Dune”

E così è arrivato in sala “Dune”, il kolossal della Warner diretto da Denis Villeneuve e tratto dalla prima metà del primo dei sei libri che compongono il ciclo del cult fantascientifico del 1965 di Frank Herbert, sul quale si erano cimentati senza successo sia Alejandro Jodorowski (la cui fase di preparazione del film, mai realizzato, si dice che abbia influenzato pesantemente Star Wars) che Ridley Scott (che abbandonò il progetto per dedicarsi a “Blade Runner”, in un corto circuito che ha visto Villeneuve, anni dopo, firmare “Blake Runner 2049”), mentre la trasposizione del 1984 di David Lynch, con Kyle MacLachlan, Silvana Mangano, Max Von Sidow e Sting, era stata un flop clamoroso pur diventando a suo modo un cult movie.
Nel pianeta desertico di Arrakis, dal ciclo vitale dei vermi delle sabbie si genera la Spezia, la merce più preziosa dell’Impero, una droga capace di provocare preveggenza, essenziale anche nel pilotaggio delle grandi astronavi, e di allungare di centinaia di anni la vita umana. La gestione del pianeta, noto come Dune, viene affidata al duca Leto Atreides: nonostante Leto sappia che l’offerta è parte di una trappola creata dai suoi nemici, parte per Arrakis insieme alla sua concubina Lady Jessica (che fa parte delle Bene Gesserit, che per comodità chiameremo streghe) e a suo figlio Paul.

Villeneuve, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Jon Spaihts ed Eric Roth, ha girato a Abu Dhabi e in Giordania: condizione essenziale che il regista aveva posto alla Warner prima di accettare di finanziare il progetto era stata di poter realizzare almeno due film. E infatti questo “Dune” è in realtà “Dune parte I”, dove vengono poste le basi per il compimento del viaggio dell’eroe, il giovane Paul Atreides, erede, messia, guida spirituale e politica, un ragazzo con un duplice fardello sulle spalle, quello dell’onore, lascito del padre, e quello della fede e dei poteri mentali, ai quali è stato introdotto dalla madre. E’ una lunga introduzione questo film, si prende i suoi tempi per raccontarci spazi, famiglie, dinastie, ambienti, paesaggi, tecnologie e, questa è la sua grande scommessa, completerà il suo percorso solo se questa prima opera otterrà un risultato soddisfacente in termini di incassi.

Villeneuve si prende il tempo di introdurre i temi portanti delle grandi saghe che da sempre nutrono il nostro immaginario: fede, onore, sangue, famiglia, potere, amore, religione. “Dune”, con il suo universo visionario e la sua epica e martellante colonna sonora di Hans Zimmer, con il suo cast all star, composto da Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Zendaya, Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem, punta a fidelizzare lo spettatore alla fantascienza d’autore.

Può appassionare o meno, ma non si può non rendere omaggio al grande rischio che il regista si prende continuando a rilanciare la rivisitazione di titoli profondamente radicati nella nostra memoria visiva e affettiva: l’operazione di “Blade Runner 2049” è una scommessa vinta nella quale dosava benissimo passato e presente, aiutato (tantissimo) dall’enorme radicamento del film originario a lettere di fuoco nelle nostre teste. La sua Visione è così potente che dal 2017 ho in testa la vecchia fabbrica steampunk, il laboratorio bianco, incontaminato, dove vive quel magnifico personaggio che è “la creatrice di ricordi”, la Las Vegas quasi marziana, rossa di sabbia e forse infetta, e la città sino-slava, piovosa e grigia, illuminata dai neon, che viene dritta dall’immaginario ambientale del primo film, che torna tramite foto, registrazioni, copie, per l’appunto, repliche, nel personaggio di Mariette che richiama Pris, nella la giacca trasparente di Joi come quella di Zhora, nel cavallino di legno al posto di un unicorno. E quando infine arriva Harrison Ford/Rick Deckard, che prima spara, ingaggia un combattimento con K./Gosling in un vecchio hotel in mezzo al nulla (che è una scena straordinaria in un film zeppo di scene straordinarie) e poi fa domande, l’icona del personaggio è così radicata che il suo ricordo è il nostro ricordo, ed il cortocircuito tra presente e passato è così potente che, quando parte “Cant’help falling in love with you” e lui dice “È la mia canzone preferita”, noi immaginiamo un suo ricordo che non abbiamo mai visto.

Tutta questa potenza emotiva, che nasce dalla memoria dello spettatore nella quale Villeneuve poteva innestare un ricordo nuovo, non è applicabile a Dune, che ci mostra un universo mai visto, totalmente grigio, freddo, cupo, senza personaggi spalla e battute ammiccanti, un mondo ostile dove addentrarsi solo se adeguatamente equipaggiati. Un mondo così lontano così vicino che di sicuro non scalda il cuore. E’ un film freddo, dicono i detrattori. Altro che, è un film gelido, ma tutto quel grigiore, quel rigore, quel senso del dovere degli Atreides, quelle scenografie monumentali, quei magnifici vermoni, quella colonna sonora (tutta la parte tecnica è fenomenale, la chiudiamo così) per me sono già una ragione sufficiente per amarlo. E se proprio devo rintracciare un’anima, Lady Jessica, la madre del Messia, la strega concubina guerriera che per amore tradisce il proprio ordine, è un gran bel personaggio. E poi tutto tutto tutto il mood di questo film parla dritto al mio cuore nero di ragazza dark, ma come si fa.

 

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