E quindi anche io ho guardato “Squid Game”

 

Squid Game Squid Game Squid Game tutti parlano di Squid Game e quindi mi sono strappata a forza dal rewatch di 15 stagioni di E.R. per guardare Squid Game. E cosa ho trovato? Una versione addomesticata dell’horror coreano fatta però dai coreani (e imbroccatissima, a giudicare da tutto questo buzz e dalle classifiche che la indicano come la serie Netflix più vista di sempre). Firmata dal regista sudcoreano Hwang Dong-hyuk, racconta la storia di un gruppo di 456 disperati pieni di debiti, malati terminali, gente che si è venduta gli organi, che vengono reclutati come volontari e poi trasferiti su un’isola per partecipare a un gioco con un enorme montepremi. Un contratto che si rivela essere mortale quando, alla prima partita a un due tre stella (i giochi sono tutti da bambini), il primo concorrente che si muove viene freddato da un cecchino.

 

 

Da qui si innescano una serie di avvenimenti che porteranno inevitabilmente a proseguire il gioco, e a isolare dal gioco alcuni protagonisti chiave. Il primo è Seong Gi-hun, ed è così perdente che fai fatica a guardarlo, è ogni perdente che tu abbia mai visto in un film orientale, è lui. Pieno di debiti, scommette sui cavalli, ha perso lavoro, moglie, figlia, e dignità.

 

 

Incredibilmente trova nell’arena (perché di questo stiamo parlando, ovvio) Cho Sang-woo, che era il prodigio del quartiere, quello che ha studiato ed è diventato un grande finanziere e un ancora più grande bluff. Il cattivo è una specie di Benicio Del Toro coreano, ed è proprio solo cattivo. C’è un indiano con due dita mozzate che non sa ancora bene la lingua. C’è una ragazza della Corea del Nord con un fratellino in orfanotrofio. C’è un vecchio con un tumore in testa. E mentre questi continuano a giocare e a morire male, c’è una storyline su un poliziotto che cerca suo fratello che non riesce mai ad armonizzare con il resto della storia, e anche una seconda ancora più strampalata e male appiccicata che ho il dubbio che siano state aggiunte per questioni di formato e durata.

 

 

Siamo di fronte a un classico survivor come ne abbiamo visti mille, e alla ancor più classica opera creata per il pubblico occidentale (è per noi che fanno “Ring” al cinema invece di farci vedere l’originale giapponese “Ringu”, è per noi che fanno quattro film sugli Hunger Games invece di proporci quel magnifico film giapponese che si chiama “Battle Royale”). Noi forse non abbiamo lo stomaco, ma loro sono fuori categoria: una volta ho visto un film di Shin’ya Tsukamoto, quello di Tetsuo (sempre grazie, Enrico Ghezzi), ambientato nelle Filippine alla fine della seconda guerra mondiale che era così crudo e allo stesso tempo così orrendamente vero (tratto da un romanzo semi autobiografico di Shōhei Ōoka) che era il 2014 e ci sto ancora pensando.

 

 

Ci sono ovviamente dei bei momenti, come la puntata dove gli alleati si trasformano in nemici sullo sfondo delle casette dei quartieri poveri dove tutti i protagonisti hanno giocato da bambini, ma ci sono tanti altri, troppi ovviamente che abbiamo già visto in questo tipo di racconto sia filmico che seriale che letterario: “La lunga marcia” di Stephen King (pubblicato come Richard Bachman) è del 1979, l’ho letto nel 2009 al mare in riviera, è un libro del male, l’ho lasciato in albergo, non lo volevo vicino, anche quello è stampato nella mia testa a lettere di fuoco. Di questi opposti è fatto quello che vediamo, leggiamo, ascoltiamo: di cose che ti restano in testa a lettere di fuoco e di altre che dimenticherai dopo uno starnuto

 

 

 

 

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