“Il lavoro è l’unica cosa su cui puoi contare”: la lezione di “Maid”

Era ora che qualcuno facesse fare una serie a Margaret Qualley che gira nella nostra testa dal 2014, da quella serie meravigliosa e straziante che è “The Leftovers” e che si è fermata da qualche parte nel nostro immaginario con “Once Upon A Time in … Hollywood”.

In “Maid”, miniserie prodotta da Netflix, Qualley è Alex, ha 25 anni, una bambina piccola e un uomo che non la picchia ma è quasi come se: e dopo l’ennesima sbronza e l’ennesima lite, Alex prende la figlia e se ne va, senza progetti, senza aiuti, con 18 dollari in tasca e una calcolatrice stampata nella testa. Ispirata al memoir “Maid: Hard Work, Low Pay, and a Mother’s Will to Survive”, la serie è un brutale racconto di sopravvivenza reale, di lavori sottopagati, delle infinite pastoie del sistema dei sussidi statali (e di tutto il lavoro che devi fare per dichiarare che non hai un lavoro), ma anche di strutture accoglienti che possono salvarti la vita, se te la vuoi salvare.

E funziona. La sceneggiatura di Molly Smith Metzler (“Orange Is The New Black”, “Shameless”) è ben scritta e funziona benissimo nel mostrare le diverse dinamiche che si possono innestare nelle relazioni tossiche, nel gestire il racconto sul filo sottile del dramma che in ogni momento potrebbe scivolare nell’horror, nel portarci dentro la testa di Alex a contare, sentire frasi sgradevoli, scivolare nella depressione, nel lasciare respiro all’affanno dei suoi personaggi offrendo loro piccoli momenti di meraviglia con una cascata di minipony colorati.

I momenti che funzionano, il centro anti violenza, le giornate a pulire le case, i conteggi quotidiani di quello che serve per arrivare a sera, le chance diffidenti che Alex offre al suo compagno, alla madre hippie bipolare (la vera madre della Qualley, l’attrice Andie MacDowell), a suo padre cristiano rinato, sono così tanti che fanno dimenticare quelli che funzionano meno, come l’amicizia della maid con la ricchissima cliente Regina, che nel primo episodio non vuole pagarle il lavoro di pulizia e nell’ultimo le offre il miglior avvocato familiare dello stato di Washington.

Ovviamente non è così nel libro, ma tutte le relazioni di Alex sono diverse da quelle del libro, dove Land passava molto tempo da sola con la bambina, un aspetto che la serie mostra spesso ma che dopo un po’ diventa poco cinematografico, e quindi gli autori hanno popolato il mondo di Alex di persone e incontri per “strutturare” la narrazione (e per arrivare a dieci puntate).

“Maid” è anche un percorso di auto analisi, di ricerca di identità, di rinascita, attraverso la scrittura, che è quello che ha portato Stephanie Land a scrivere il suo memoir e a cambiare vita, perché Alex/Stephanie è una donna bianca colta che stava per andare al college, e si può permettere di pensare ambiziosamente. E quindi “Maid” è un brutale racconto di sopravvivenza reale di una donna che ha tutte le possibilità di farcela, a sopravvivere. E anche per questo è un buon racconto, ma sicuramente è molto meno brutale della media di storie come questa.

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