E ora un multiverso completamente diverso: Everything Everywhere All At Once


Non capita spesso di trovarsi di fronte a un film capace di stupire davvero e di fronte a un progetto come “Everything Everywhere All At Once”, che indubbiamente punta tutte le sue carte sull’idea di visione folle e digressioni metacinematografiche a discapito della storia, è facile lasciarsi trasportare dall’entusiasmo.
Non è un caso che citi i Monty Phyton nel titolo, perché la vena di follia dei Daniels, che ha portato questo film, prodotto da A24, a diventare il caso dell’anno al botteghino USA, pur essendo inquadrato in una struttura rigorosa, ha quel senso di libertà, quello del lancio delle mucche. E non è poco.

 

Costruire un film che dialoga attraverso multiversi regala opportunità infinite ma non sempre riuscite (me ne lamentavo qui scrivendo dell’ultimo Doctor Strange): i Daniels, ovvero Daniel Kwan e Daniel Scheinert che, lo ricordiamo, sono i registi di “Swiss Army Man”

altro titolo folle dove Daniel Radcliffe interpreta un cadavere che viene ritrovato dal naufrago Paul Dano, queste opportunità infinite invece le usano benissimo.
Il film si apre su Evelyn Wang (Michelle Yeoh) alle prese con un controllo fiscale alla sua azienda, una lavanderia a gettoni sull’orlo del fallimento, un marito zelante e premuroso che lei ha smesso di ascoltare, una figlia adolescente che insiste per presentare la sua ragazza al tradizionalissimo nonno (James Hong, un attore con una carriera lunga un chilometro che avete sicuramente già visto da qualche parte). È qui che (se volessimo leggere il tutto come una metafora, che è possibilissimo) la sua mente va in pezzi e mentre si trova davanti alla temibilissima funzionaria Deirdre Beaubeidra (una esilarante Jamie Lee Curtis) le si spalancano davanti universi infiniti dove esistono infinite versioni di sé stessa, alcune che differiscono di poco da quella che lei percepisce come la sua vita principale (o, come le suggeriscono “la versione peggiore di sé, la meno capace”), altre diversissime, nelle quali è una campionessa di arti marziali (che pesca a piene mani alla carriera cinematografica di Michelle Yeoh, vista recentemente anche nel mondo Marvel, ma nota soprattutto per “La tigre e il dragone” e “Memorie di una geisha”), altre nelle quali è una famosa attrice che reincontra il suo ex fidanzato che è tutta una struggimento perché ha i toni, i colori e le atmosfere di “In the mood for love”, altre nelle quali cambia addirittura regno, insomma un’esperienza visiva tale che (per fortuna) è impossibile da raccontare.


Come nella Matrix della quale è un evidente prodotto derivativo (ma senza la sovrastruttura misticheggiante de l’Eletto), Evelyn, pare, è l’unica che può salvare tutti gli universi da Jobu Tupaki, tremendo villain che a sua volta sta cercando lei proprio perché è l’unica che può eccetera. Tutto, dappertutto, nello stesso momento, tutto ti può travolgere, tutte queste cose furono necessarie perché le nostre mani si incontrassero. Di questo parla questo film all’inizio, in mezzo e alla fine del suo rutilante frullato post moderno di generi narrativi e cinematografici. Questo film selvaggio e immaginifico parla di sliding doors e di scelte, di quelle che abbiamo fatto e di quelle che siamo ancora in tempo a fare. Di piccoli momenti che possono cambiare il corso delle nostre vite. Di bene, di male e di conflitti. Del bene, del piccolo e grande bene che possiamo portare nelle nostre vite, si incarica Ke Huy Quan (che ve lo giuro è il ragazzino Shorty di “Indiana Jones e il tempio maledetto” e Data de “I Goonies”), il marito Waymond che mette occhietti di plastica dappertutto, che è anche una versione somigliantissima di Jackie Chan, che è anche una versione romanticissima di Tony Leung.

 


Il male è una versione della stessa Evelyn, affogata in un quotidiano che le impedisce di vedere la sua stessa famiglia. Il male è la versione di Deirdre Beaubeidra che si aggrappa agli scontrini fiscali.

Il conflitto è con la figlia Joy, per Joy, contro Joy (Stephanie Tsu, anche lei passata per gli Shang Chi della Marvel), portatrice di look pazzeschi, adolescente fragile passata al lato oscuro degli adulti dove niente importa.

Eppure tutto importa. Ogni frenetico giro di giostra. Ogni piccolo momento anche di quella vita dove sei la versione peggiore di te stessa, la meno capace.

 

E poi c’è questa storia bellissima su una canzone del 2000 che è diventata uno degli assi portanti del film, the story of a girl who cried a river and drowned the whole world e la dovete assolutamente conoscere.

 

 

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