Mal d’Africa, il prezzo della libertà non si paga con il denaro
24 Novembre 2022 10:31
È difficile spiegare la strage del Mediterraneo, soprattutto a chi cerca sempre di mantenere una certa distanza tra “noi” e “loro”, a chi sente di essere nato dalla parte “giusta” del mare e chi, invece, è visto come una minaccia, un barbaro invasore desideroso di sradicare la cultura, le tradizioni e i confini tanto faticosamente costruiti. Diventa quasi impossibile quando le notizie si susseguono sempre uguali: il naufragio di un peschereccio fatiscente; l’intercettazione da parte della Guardia Costiera di una nave che imbarca rovinosamente acqua; decine, centinaia di morti senza nome che si riducono a statistica. Quando i numeri smettono di essere tali e si trasformano, invece, in nomi, volti, corpi martoriati e occhi straziati, si intravede l’orrore di chi per il sogno della libertà ha rinunciato a tutto, persino alla propria identità.
Protagonista di Mal d’Africa, romanzo d’esordio di Giovanni Sanfilippo per il Gruppo Albatros il Filo, è un uomo senza nome, né etnia, né colore della pelle. Non sono queste le informazioni rilevanti, secondo l’autore: a rappresentare invece un dettaglio di fondamentale importanza è l’emozione di stupore mista a smarrimento che questi prova per la prima volta davanti al mare: una smisurata distesa d’acqua di cui non si riesce a vedere la fine, molto più vasta di quanto avesse mai potuto immaginare. Il senso di vertigine investe il lettore che diventa presto tutt’uno con il protagonista, complice nell’impazienza di arrivare dall’altra parte, compagno nel timore degli abissi più neri.
Come a riprendere ed estendere l’immagine dell’immensità del mare, si svela davanti ai nostri occhi lo sconfinato oceano di sabbia del deserto. Niente può rompere un silenzio così grande, quello che, come spiega l’autore, rischia di far impazzire chi si avventura nelle sue viscere. “ Non puoi dire di conoscere il silenzio se non sei mai stato da solo, anche per qualche ora, nel deserto. Per questo i viaggiatori solitari, quando attraversano il deserto, anche se brevemente, portano con sé due pietre, quando sentono di impazzire, usano le pietre per fare rumore, picchiando l’una sull’altra” spiega il protagonista senza nome, ormai in viaggio da mesi, forse anni. L’Africa è vasta, soprattutto quando la si attraversa a piedi. Talvolta si ha la fortuna di ricevere un passaggio, altre volte invece si cade vittima dei malintenzionati pronti a sottrarre ai traversanti il denaro o quei beni che portavano con sé come tributo per poter salire sulla nave che li condurrà verso la libertà.
Seimila dollari americani, questo è il costo per essere traghettati dall’altra parte del mare, il prezzo della libertà. Chi non dispone immediatamente di quella cifra è costretto a rimanere nei lager libici per settimane, mesi interi. Non è possibile, ad oggi, ignorare le gravi violazioni dei diritti umani che avvengono in questi luoghi di morte e desolazione, a lungo raccolte, segnalate e denunciate dal team medico-psicologico di Medici per i Diritti Umani (MEDU), da Amnesty International e altre ONG sempre in prima fila per la tutela della dignità di donne, uomini e bambini. Sempre più spesso, negli ultimi tempi, le notizie di cronaca parlano di un progressivo aumento delle migrazioni nel Mediterraneo: le ultime rilevazioni del Ministero dell’Interno evidenziano dati preoccupanti, dal 2020 a oggi infatti il numero di sbarchi è praticamente triplicato, una cifra che aumenta in maniera incontrollata se si pensa alle migliaia di persone che invece nel mare trovano la morte. Il “Mare Nostrum” è diventato un “Cimitero liquido”, così scrive Bernard Bwashi Thumba, prefatore dell’opera e testimone delle tante atrocità subite dai migranti.
Ciò che traspare dal libro è tuttavia una tensione verso la libertà più grande della paura, delle percosse, del deserto e del mare stesso: il miraggio di un mondo migliore dove ricominciare, senza accontentarsi di sopravvivere. Una terra in cui la violenza e la malvagità umana sono soltanto un ricordo lontano, una notizia da seguire in televisione o sui giornali dalle proprie “tiepide case”. La speranza che il prezzo di questo sogno sia soltanto dei seimila dollari americani necessari per imbarcarsi è però destinata a svanire presto, ancora prima di raggiungere le coste libiche: basti pensare che nel deserto si incontrano carovane di viaggiatori, si percorrono tratti di strada insieme, si diventa compagni, ma non si può essere amici. La silenziosa consapevolezza di ciascuno è che la propria sopravvivenza non può essere messa a rischio dall’istinto di salvaguardare quella di qualcun altro, né è possibile aprire finestre di ricatto per eventuali carnefici. Il viaggio va affrontato da soli, perché da soli si vive e si muore nella disperata traversata della speranza. La disumanizzazione appare come un fattore da dover mettere in conto, l’ennesima vittima da sacrificare sull’altare della libertà: un prezzo che va oltre qualsiasi cifra in denaro.
Con il viaggiatore senza nome ci imbarchiamo sul peschereccio fatiscente, le narici si impregnano del fetore di vomito e morte, l’aria diventa sempre più irrespirabile e rarefatta. Subentra la paura stringente di aver fatto o meno la scelta giusta a lasciare la propria terra per navigare verso l’ignoto, verso un sogno sconosciuto. È un’incognita alla quale non è possibile trovare una risposta: si può soltanto continuare a sperare.
La prosa di Sanfilippo è capace di inghiottire il lettore in un vortice di emozioni contrastanti, fino a far combaciare perfettamente il suo sentire con quello del protagonista. In mare, spogli di denaro e beni materiali, lontani dagli affetti e privati persino del conforto della salvifica coperazione umana, non esistono più i costrutti sociali, le gerarchie e le apparenze: rimangono soltanto gli uomini, scimmie nude al cospetto della natura, in balia di un gioco del quale non è dato conoscere le regole. Il punto di ri-partenza è proprio questa capacità di riconoscersi umani, dunque di saper vedere l’altro, spogli dai pregiudizi.
A conclusione dell’opera, l’autore si stacca dalla vicenda soggettiva e prende in mano invece quella oggettiva, raccontando in maniera esplicita le migrazioni da un punto di vista storico, economico e culturale. Ne tratteggia le fasi e svela i lati più raccapriccianti e sommersi, legati al narcotraffico, alla schiavitù, alla violenza fisica e sessuale della quale sono vittime preferenziali le donne e i bambini.
Mal d’Africa racchiude in poche pagine le contraddizioni di un’umanità convinta di essere civilizzata e che si rivela al contrario bestiale, al contempo vittima e carnefice di sé stessa. La speranza che brilla luminosa all’inizio lascia presto spazio allo smarrimento, all’orrore e all’incredulità: dopotutto come poter credere che l’uomo possa essere capace di tanto? Così come Sanfilippo racconta di aver imparato ad ampliare il suo sguardo ascoltando le storie dei migranti, allo stesso modo sprona il suo lettore a fare lo stesso, perché mai ci si senta in diritto, di fronte a un altro essere umano in difficoltà, di ritrarre la mano e distogliere lo sguardo.
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