“Giò l’Eremita e la locanda del Beccamorto”, la meraviglia di una natura da riscoprire e preservare
29 Aprile 2023 11:37
La natura, con la sua bellezza armonica e la sua forza straordinaria, è stata fonte di ispirazione per innumerevoli autori, sin dai tempi più antichi. Al contrario la società moderna tende ad allontanarsi sempre più spesso dal mondo naturale, dimenticando quel legame ancestrale che lo unisce indissolubilmente all’uomo. Certe storie e personaggi, tuttavia, riescono a evocare esperienze lontane dalla fretta del quotidiano, offrendo avventure tanto affascinanti da risvegliare, nei lettori, il desiderio di perdersi tra gli alberi e partecipare del respiro della natura. Sarà un incontro, tanto sconcertante quanto salvifico, ad aprire gli occhi di Giovanni B., il protagonista del suggestivo romanzo d’esordio di Sandro Bruni.
“Giò l’Eremita e la locanda del Beccamorto”, pubblicato per il Gruppo Albatros il Filo, è un romanzo capace di mescolare autobiografia e invenzione letteraria con maestria, dedicato a chi ogni giorno si impegna per preservare l’ambiente naturale. Dopo anni di peregrinazioni per il mondo, Giovanni B. sceglie di rifugiarsi sulle colline dell’entroterra marchigiano delle quali è originario. Da una parte desidera rallentare il ritmo della sua vita, rievocando il tempo spensierato della sua infanzia, dall’altra è incuriosito da un leggendario e antichissimo tesoro celtico che era convinto si trovasse sepolto sotto un pianoro ai confini della foresta di Montforte. Giovanni è un uomo moderno che sceglie di muoversi in direzione opposta rispetto alla corsa verso la metropoli dell’ultimo secolo, la quale ha causato, a ritmi sempre crescenti, lo spopolamento delle aree rurali. Consapevole della frattura sempre più profonda nel rapporto tra uomo e natura, il suo messaggio non desidera porsi in opposizione al progresso, ma vorrebbe renderlo più sostenibile: è infatti fondamentale, per lui, riscoprire la natura, il valore della lentezza che arricchisce i giorni, scendere a compromessi con il tempo e con i cicli naturali, riscoprendo uno dopo l’altro i profumi, i cibi, i sapori autentici della terra.
La narrazione si articola su un duplice piano: da una parte squisitamente autobiografico, dall’altra di pura invenzione narrativa. Somiglia quasi al teatro l’incipit, nel quale l’autore, come un attore pronto ad affrontare il monologo più significativo della pièce, si spoglia del nome di Sandro Bruni per rivestirsi della maschera di Giovanni B., sotto lo sguardo ammaliato degli spettatori. Da quel momento in poi narra il proprio passato rimanendo nascosto dietro la maschera del personaggio, ed è forse proprio per questo che riesce a essere ancora più profondamente schietto e sincero.
In tutta la prima sezione del libro il presente e il passato si mescolano, lasciando ampio spazio ai ricordi. Dopo l’ultimo tornante della strada provinciale che risale da San Ginesio, si scorge in lontananza il minuscolo borgo di Montforte: raro alla vista ma prezioso come una gemma, rimane nascosto e misterioso, concedendosi soltanto agli occhi del viaggiatore errante in cerca di bellezze, come ricompensa dopo una lunga fatica. È tra le viuzze di quel borgo – il cui nome è di invenzione, ma che si rifà a un territorio reale – che prende forma il ricordo di un’infanzia circondata dagli affetti sinceri e dalla famiglia, dalle scorribande con gli amici e i valori del rispetto reciproco e dell’ascolto
È dura e saggia la cultura contadina che emerge tra le pagine di Bruni, ricca di tradizioni che rischiano di sbiadire e di leggende misteriose che suscitano meraviglia. Di questa meraviglia si inebria il viaggiatore, stupito di fronte a tutta la bellezza che i paesaggi rurali sono in grado di offrire, anche se non per tutti è così: l’autore pone l’accento sul comportamento di tanti turisti annebbiati dal moderno concetto di vacanza, i quali finiscono per inquinare e nel peggiore dei casi distruggere l’ambiente che li ospita. Sono tanti gli esempi di località messe a rischio dalla scarsa coscienza degli avventori, per questo motivo il nostro protagonista sceglie di alloggiare alla famigerata Locanda del Beccamorto. Un po’ per il nome sinistro, un po’ per la sua collocazione isolata e fuori da qualsiasi itinerario turistico, a frequentare la locanda sono soltanto pochi clienti abituali e qualche raro gruppo di motociclisti. Con un tocco di ironia, Giovanni si cimenta nel racconto di aneddoti e riflessioni, per intrattenere il lettore e allo stesso tempo raccogliere le forze prima della nuova giornata di scavi che lo attenderà l’indomani.
Proprio sul pianoro nel quale il protagonista ha riposto le sue speranze, pregustando già il plauso delle autorità e della Soprintendenza per i Beni Archeologici per la straordinaria scoperta del tesoro avviene l’incontro con Giò l’Eremita. Trent’anni prima, l’uomo aveva compiuto la scelta estrema dell’esilio nei boschi marchigiani, per sfuggire dal dolore di una quotidianità che non gli apparteneva più. Sebbene il primo impatto avesse provocato in Giovanni B. un misto di timore e delusione, presto i due impareranno a conoscersi e Giò avrà molto da insegnargli. L’uomo solitario era infatti perfettamente autosussistente, dedito all’agricoltura e all’allevamento. In questo “vivere di niente”, il lettore riesce quasi a toccare con mano la magnificenza di una natura che, se ben ascoltata, è capace di offrire facilmente – ma non senza sforzo – i suoi frutti più succulenti.
In certa misura, sembra quasi che Giò l’Eremita sia la personificazione della natura stessa, la quale prende la parola di fronte a un uditorio di donne e uomini assordati dalla ricerca del proprio tornaconto materiale – assumerebbe così un ulteriore significato metaforico la ricerca di Giovanni B. del tesoro dei celti. Il senso della ricerca, tuttavia, non può essere ridotto soltanto a un piano di lettura superficiale, emerge infatti una più intima indagine interiore: “Scavare e ancora scavare alla scoperta dei propri traumi, dei propri orrori ma pure dei propri tesori, comporta sempre un’immane fatica. Come tanti archeologi dell’anima, ognuno di noi nell’affannosa ricerca di quella luce in fondo al tunnel. Quella stessa luce che alla fine ci ricompenserà di tutti gli immani sforzi e di tutta quella intensa spasmodica ricerca. Questo è il duro prezzo da pagare per attingere finalmente dal pozzo della nostra serenità, del nostro equilibrio personale, della nostra completezza, che si trova celata nel profondo del nostro essere. Ignorando quella parte di noi, viviamo senza la consapevolezza del nostro essere monchi, incompleti. Vivere la nostra interezza, che ci piaccia o no, consiste nel riconoscere e riunire le due parti”, leggiamo in questo significativo passo del romanzo.
Il profondo legame che si crea tra i due co-protagonisti vuole dunque rappresentare un inno alla vita: la stessa promessa che Giovanni B. stringerà con Giò è la stessa che l’uomo ha bisogno di mantenere e ribadire nei confronti della natura ogni giorno, perché possa risanarsi, una volta per tutte, la frattura di questo patto ancestrale. Una sconvolgente coincidenza, infine, chiuderà in levare la narrazione di Bruni: un artificio perfetto per salutare Giò con il sorriso, prima di continuare il cammino insieme a Giovanni B.
Con una narrazione puntuale, appassionata e a tratti ironica, il romanzo di Sandro Bruni invita il lettore a scavare nelle profondità di sé stesso per ritrovarsi intero, parte di un tutto sfaccettato e al contempo inscindibile. Ma non è tutto: con la sua successiva raccolta poetica “Viaggio nella paradisiaca illusione” (Gruppo Albatros il Filo), l’autore riverbera ulteriormente il significato di questo cammino di infinita ricerca, nel tentativo di evidenziare tra i propri ricordi quella preziosa illusione – per l’appunto “paradisiaca” – che diventa per l’uomo nettare e balsamo. Solo attraverso la proiezione di un mondo ideale, di una vita migliore, i quali esistono per primi nella nostra mente, è possibile trovare il conforto necessario per intraprendere il viaggio verso la felicità.
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