Gabriella Simoni: “Cocaina e babà, nel podcast l’inferno di Pino con la droga”
09 Febbraio 2024 17:12
“Io non credo nella figura dell’inviato di guerra “specializzato”. Alla fine dei conti gli inviati raccontano storie. Così, quando non sono in giro per raccontare guerre, racconto altre storie, altre guerre, magari private, personali. Sono altre vite in bilico: le nostre periferie ne sono piene. Che ci posso fare? Non riesco a stare ferma in redazione tutto il tempo… Diciamo che è il mio “côté Lucignolo” (ride dicendolo, “Lucignolo” è il settimanale Mediaset che ha contribuito a far nascere, che spesso raccontava di esistenze ai margini, ndr)”.
Gabriella Simoni, storica inviata dei tg Mediaset, ha un curriculum internazionale carico di onori: prima guerra del Golfo, Somalia, Ruanda, Afghanistan, ancora Iraq, Medio Oriente, Ucraina. Ma appunto, gli inviati cercano e trovano storie anche nei momenti in cui il fronte si allontana, anche viaggiando nelle retrovie. Simoni ne ha trovata una a nord di Napoli, nelle terre di camorra. Una vicenda potente, che ha deciso di raccontare con un mezzo diverso dal solito. “Ormai siamo assuefatti alla televisione – spiega -, spesso la teniamo accesa con il volume abbassato. Tutti vogliono apparire. Mentre invece secondo ne c’è un gran bisogno di ascoltare, anche e soprattutto le cose che non ci piacciono”.
Il podcast – Così, per una volta, la famosa inviata tv ha lasciato a casa la telecamera e usato solo un microfono, in controtendenza – “ma io sono fiorentina, e quindi bastian contrario” – rispetto a una carriera intera. Dotazione essenziale, quel microfono, ma sufficiente a realizzare un podcast abrasivo e duro, che si intitola “Babà e cocaina”. Ci è voluto un anno per mettere insieme il materiale. Anzi “due guerre e mezzo”, come dice l’inviata del Tg5 che evidentemente ha un modo tutto suo di guardare al calendario.
In ogni caso è stato tempo ben speso. Il podcast racconta una discesa agli inferi – anzi, al plurale: le discese agli inferi – e le relative risalite di Pino Bozza, imprenditore e ristoratore napoletano di grande successo, rimasto imprigionato per 30 anni nelle grinfie della coca e ora disintossicato, libero dalla dipendenza come lo sono tutti gli ex: stando sul filo, sperando che la ricaduta non arrivi mai.
Chi è Pino Bozza – Personaggio che gli americani definirebbero “larger than life”, il tipo che proprio non riesce a stare nelle righe della vita, Bozza è uno che ha combattuto centimetro per centimetro per uscire dalla prigionia della droga, e che con la spavalderia dello scugnizzo racconta senza troppi filtri o prudenze i crolli, i fallimenti, il riscatto. Ne esce fuori un racconto diretto, brutale. E un curioso prodotto bilingue, dove spesso il napoletano prende il sopravvento. Meno male che Simoni usa il suo italiano all’aroma di Toscana per fare domande e ricapitolare, in modo che anche chi guardava “Gomorra” coi sottotitoli in italiano possa orientarsi e capire. A proposito: “Gomorra” qui non c’è, resta sullo sfondo. Così come manca “Mare fuori”, a proposito di cliché su Napoli e fiction. Alla fine, la storia di Pino Bozza è la storia di un uomo alle prese con un drago, vera come possono essere vere solo le storie di persone in carne e ossa. Se proprio bisogna cercare un riferimento tra cinema e tv, magari è meglio rivolgersi a certe cose di Massimo Troisi, alla sua napoletanità dolente e autoironica.
Simoni, la prima cosa che viene in mente ascoltando la prima puntata è: accidenti, che sbruffone. Anzi, che “guappo”, come dicono a Napoli. La seconda: però, che coraggio…
“Ma sì, Pino è un personaggio tipico di quell’ambiente, di quella società: la spavalderia fa parte delle regole del gioco. Sulla strada non puoi permetterti di essere troppo remissivo: è uno che pensa di non doversi giustificare mai. Nelle prime puntate spicca molto questa attitudine: il carattere che ne scaturisce in effetti può risultare odioso. Ma al di là dei giudizi, che io comunque non voglio dare, non è un personaggio solo “nero”, negativo. Non è insomma solo quello del “Bevo champagne e ho 30 Rolex”. Bisogna però ascoltare tutto il podcast (“Babà e cocaina” è diviso in sei puntate da 15 minuti l’una, lo si trova su tutte le principali piattaforme digitali, ndr) per apprezzarne i tormenti, la sofferenza, l’umanità. Per dire: Pino è uno che nei due giorni dell’anno in cui chiude il ristorante, fa da mangiare gratis per i poveri del quartiere. Si farebbe ammazzare piuttosto che dirlo in giro, perché nel suo mondo le cose buone si fanno senza vantarsene”.
La storia è avvincente, e a un certo punto non si capisce più se la storia è quello di Pino Bozza o di Napoli…
“Pino è uno che tra successi e insuccessi va avanti in una città che è già di per sé complicata. È importante tratteggiare storie come la sua: persone che devono sopravvivere in un mondo difficile, un dramma che tutti noi privilegiati tendiamo a sottostimare, a ignorare. Le prime puntate raccontano la sua infanzia povera, le astuzie per mettere insieme i soldi, per cominciare la sua ascesa. L’arrivo in scena della coca cambierà tutto. In quella scalata si possono riconoscere i tratti di una città, appunto”.
Secondo lei, perché Bozza ha deciso di raccontare senza filtri la sua storia così dura, piena di inciampi? Questione di guapperia, solo per poter dire: “Guardatemi, ce l’ho fatta anche contro la cocaina?
“No, l’ego non c’entra. Anzi, qui emerge la parte migliore di Pino: sente la necessità di raccontare ai ragazzi in strada – che sono oggi come lui era ieri – di stare attenti, di non fare quello che ha fatto. Pino vuole che capiscano che la trappola scatta quando ti sembra di poter tenere la cocaina sotto controllo, di poterla gestire, perché ti fa sentire invincibile. Ma va a finire sempre che ti frega”.
Il dialetto napoletano è essenziale nel suo racconto, non ci sono dubbi. Ma se uno è di Piacenza, è dura… È soddisfatta della scelta di non aver “candeggiato” la parlata di Bozza?
“Ho pensato che se lo avessi spinto a esprimersi in italiano, lo avrei costretto a pensare a come costruire la frase, a quale parola utilizzare, finendo per fargli perdere la spontaneità. Invece io volevo che venisse fuori quel suo carattere diciamo “alla Maradona” (tra i 167 tatuaggi che istoriano il suo corpo Bozza ne ha uno di Che Guevara che è una chiara citazione di Diego Armando, ndr), il suo mix di spavalderia, genialità, sregolatezza. Mi piaceva che venisse fuori per come è, che si sentisse che è uno vero, che ha il coraggio di raccontare i propri errori senza quell’aria da pentito che spesso adotta chi si confessa pubblicamente. Magari è pieno di sensi di colpa. Ma pentirsi non è proprio nelle sue corde”.
Si ricorda del Greco, quel personaggio di “La tregua” di Primo Levi che dice: “Guerra è per sempre”? Secondo lei finirà mai la guerra di Pino Bozza?
“Temo di no. Lui dice che ogni tanto “il drago salta fuori” e che deve tornare a combatterlo. É per questo che lo stimo: perché Pino non viene a raccontarci che è pulito, che è rinato a nuova vita. Sa che potrebbe cadere un’altra volta e non ne fa mistero”.
Bozza è uno che viene dalla strada. Non sarà stato sempre facile intervistare un tipo così…
“Ha prevalso il rispetto reciproco. Certo, ci sono stati dei momenti di tensione, ce li siamo gestiti in silenzio, allontanandoci un po’. Magari si fermavano i lavori, diciamo così, con le distanze che si creavano perché ognuno stava seguendo la propria guerra. Io in Ucraina, e Pino contro “il drago”. Ma sono state tutte frizioni sotterranee, senza fiammate, basate sulle cose non dette. Alla fine più forte di tutto è stato il bisogno di parlare e di ascoltare”.
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