Tommaso Foti, l’intervista di Libertà: “Mi davano per finito e ora sono ministro”

28 Gennaio 2025 14:00

Intervista di Marcello Pollastri

Ministro Tommaso Foti, qualcuno ha l’impressione che di questo governo in carica lei sia il più moderato. Concorda?
«Ammetto di sentirmi più ragionatore di prima. Forse alcune vicende personali mi hanno aiutato. Ho archiviato un po’ l’esuberanza, che per altro non è mai stata venata di cattiveria. A volte era un po’ teatrale».
Si è ambientato al ministero?
«Diciamo che ho iniziato a studiare un po’ di dossier. Non è facile, ma vediamo di riuscirci».
Su quali sta lavorando in questo momento?
«In primo luogo quello del Pnrr (Piano nazionale resistenza e resilienza, ndr) perché abbiamo scadenze fisse e alcune misure da riprogrammare. Poi non è che la politica europea non sia in movimento, quindi anche lì c’è molto lavoro da fare».
Qualcuno di quei dossier riguarda anche Piacenza?
«Sto guardando le macrovoci e facendo il punto sulla situazione di spesa delle stesse. Ci sono più di 260mila interventi, non dubito che diversi riguardino anche Piacenza. Ma c’è bisogno di tempo».
Si è abituato a girare con la scorta oppure non ce l’ha?
«Giro da solo come ho sempre fatto in tutta la mia vita. A Roma, il ministero è a 200 metri dall’albergo. Per i tratti più lunghi, mi porta un autista, ma niente scorta».
È passato da un ruolo più politico al governo. Due mondi diversi?
«Sicuramente sì. Del primo ho molta nostalgia. A me piaceva tanto fare il capogruppo, sono un uomo d’Aula. Ma nella vita a volte si è chiamati ad assumersi responsabilità. E così ho fatto».
A chi è seduto vicino in Consiglio dei ministri?
«A sinistra ho il ministro dello sport Andrea Abodi e a destra il ministro per la protezione civile delle politiche del mare Sebastiano Musumeci, tutti e tre senza portafoglio. Al di là dell’ufficialità, ci sono anche tanti momenti di simpatia e buon umore. Il giorno del mio esordio dissi: grazie di tutto, l’impegno è che in questi due anni e mezzo si lavori in modo ancora più pregnante per restare anche nel mandato successivo. Qualcuno mi ha detto, scherzosamente: ma sei matto? Come a dire che i ritmi sono molto serrati e non so se sia il caso di augurarcelo (sorride, ndr)».
Chi è il collega del governo più simpatico?
«Dopo tanti anni di Parlamento, li conoscevo più o meno tutti. Però Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, si è rivelato una sorpresa: quando meno te l’aspetti ti piazza la battuta, magari un po’ british, stile Tremonti».
Insomma, con chi andrebbe una sera a mangiare una pizza?
«Senza dubbio con Francesco Lollobrigida, ministro dell’agricoltura».
Non c’è il rischio che mentre andate fermi un treno?
«Il treno che funziona meglio resta quello dell’agricoltura italiana».
E il più antipatico?
«Non provo antipatie per alcuno».
Se l’aspettava di arrivare al massimo della sua carriera a 64 anni? C’era chi la dava per finito nel 2013…
«Non ho mai pensato alla fine politica degli altri, mentre molti hanno pensato alla mia. Mi pare che a rimanere delusi siano rimasti quest’ultimi. In ogni caso, da capogruppo di Fratelli d’Italia ci stavo ottimamente. Questa volta non ho potuto dire di no a Giorgia Meloni. Anche se ho tentato».


Nella sua camera da letto di bambino aveva il poster della grande Inter o di Giorgio Almirante, storico leader Msi?
«Ovviamente della grande Inter. Sono del ’60, quando dominava l’Inter di Herrera: Suarez, Mazzola, Jair, Facchetti… Un’altra grande Inter che ricordo con entusiasmo è quella di Mourinho del Triplete. Quella di Inzaghi mi sembra però avere costruito un progetto più duraturo».
Chi le instillò la passione politica?
« La politica la respiravo in casa pur non essendo mai stato condizionato. Mio papà fondò il Movimento sociale a Piacenza. Quando mi misi a fare politica a scuola al liceo Respighi, sul finire degli anni Settanta, mio papà non condivideva. Sa, erano anni pericolosi…».
Perché decise di impegnarsi a destra?
«All’inizio anche e soprattutto per reazione ai picchetti davanti alla scuola nei giorni di sciopero o al non sentirsi libero di volantinare».
Di fatto fa il politico di professione da trent’anni. Ma quale era il suo lavoro prima?
«Dirigente di un’azienda del settore agroalimentare con un elevato grado di responsabilità».
Qualche volta è circolata una foto di lei in consiglio comunale a 20 anni circa. Fu precocissimo. Cosa ricorda?
«Era il 1980 quando entrai per la prima volta in consiglio comunale. Dopo le elezioni, aspettammo più di due mesi e mezzo perché si insediasse il consiglio. Ci fu un lungo braccio di ferro tra il Pci che aveva avuto in Felice Trabacchi il sindaco uscente e il Psi che spingeva per Stefano Pareti. Poi Pareti divenne sindaco. A Palazzo Mercanti ero seduto accanto a Carlo Tassi, e, alla mia destra, avevo l’avvocato Filippo Grandi».
È sempre stato considerato il delfino di Carlo Tassi. E’ così?
«Ci legava un’amicizia solida che un terribile incidente nel 1994 ha interrotto».
Nel 1996 la sua prima candidatura alla Camera.
«Fu Gianfranco Fini a insistere perché mi candidassi nonostante ricoprissi un ruolo nell’azienda che me lo faceva fortemente sconsigliare. E infatti nel 1994 non mi ero candidato proprio per questa ragione. Stavo facendo un percorso di carriera interessante, poi però alla fine accettai».
Nel 1996 vinse il collegio uninominale contro il professor Gianfranco Pasquino, un pezzo da novanta. Poi nel 2001 con il dottor Luigi Cavanna. Fu più dura la prima o la seconda sfida?
«Con Pasquino era difficile per la situazione politica a livello nazionale, eppure quello fu l’unico collegio che il centrodestra vinse in Emilia Romagna. Ce la feci di 353 voti. Con Cavanna, con cui vinsi di 1923 voti, c’era una situazione politica un po’ più favorevole, ma avevo come avversario – non certo come nemico – un personaggio di grandissimo spessore professionale ed umano. Cavanna fu eccezionale. Concluso lo scrutinio nella notte, alle 7 del mattino mi telefonò per congratularsi. Poi ci siamo rivisti in varie occasioni. Con Pasquino ricordo un difficile dibattito all’ex Excelsior (oggi il President). In qualche dibattito televisivo ho ricordato quella vittoria, lui è sempre stato un signore».
Chi era e cosa faceva Foti adolescente alla fine degli anni Settanta, anni difficili?
«Lo studente del Respighi. Pensavo alle donne, al calcio, alla vespa e alla politica. Passioni abbastanza comuni mi pare».
Ma le è mai capitato di partecipare a scontri di piazza?
«Il timore della piazza c’è sempre stato ed era anche legittimo che ci fosse. Mi è capitato di essere picchiato una volta ai Giardini Margherita. Avevo appena festeggiato il mio compleanno. Un’altra volta andò bene a me e a un altro amico, oggi in FdI. Un pomeriggio, in via Sopramuro, ci chiudemmo negli uffici della Spi per sfuggire a un pestaggio prima che arrivasse la Digos».
Perché si dimise gli ultimi sei mesi da vicesindaco sotto il sindaco Guidotti? Cosa non aveva accettato?
«Ero stato eletto presidente della commissione di vigilanza anagrafe tributaria e dovevo stare più tempo a Roma. Il resto è gossip. Vero è invece che sulla pratica dell’Ipercoop di Montale ho sempre esternato contrarietà. Ritenevo ci fossero problematiche di ordine amministrativo che potevano consentire di non autorizzarla. Tanto è vero che poi il consiglio non la autorizzò. Lo fece poi Reggi? Fu una scelta legittima dopo che le cose, da un punto di vista amministrativo, si erano sistemate».
La politica le ha dato più soldi o potere?
«Né uno e né l’altro».
Ovvio che non ci crediamo. Mettiamola così: meglio i soldi o il potere?
«Mai avuto il mito dei soldi. Per il resto, non mi sento di potere, ma di riferimento sì».
La lusinga almeno sapere di essere l’indiscusso capo del centrodestra piacentino praticamente da sempre o nemmeno quello?
«No, se devo dire mi preoccupa. Perché dopo 30 anni che è così, ho detto a tanti amici che si dovrebbe pensare a qualcosa d’altro. Vediamo se qualcuno riesce a prendere il pallino in mano».
Dicono che lei non lascia spazio alle nuove leve, che se arriva qualcuno potenzialmente in grado di farle ombra, poi lo brucia.
«Non mi sono mai occupato delle maldicenze. Chi conosce la storia della destra piacentina sa che non è così. Mi pare che anche in consiglio comunale come in quello provinciale ci sia una presenza sicuramente giovane. Ricordo che quando iniziò l’avventura di FdI, molti amici che avevano condiviso con me l’esperienza in An e nell’Msi, preferirono stare nel Pdl. Non me la sono mai presa per questo e sul piano personale i rapporti sono sempre gli stessi. Non porto mai rancore».
In tanti anni di politica quale regalo si sente di aver fatto ai piacentini?
«Anche più d’uno: sicuramente le risorse per sistemare il tetto dei Teatini o le mura Farnesiane della città. Ma anche essermi speso per l’acquisto dell’ex Parco della Galleana e del Daturi, quest’ultimo poi perfezionato da Francesco Cacciatore, una persona che ha dato tanto a questa città».


Sei legislature in Parlamento, non sono un po’ troppe?
«Non tutte sono durate cinque anni, posso però dire che se sono stato riconfermato significa che i piacentini hanno un buon giudizio di me. Anche nei collegi uninominali nelle ultime due tornate, così come nelle prime due di cui ho parlato prima, ho sempre vinto».
Il complimento più bello che ha ricevuto in politica?
«Ne ho avuti tanti. Però quello di essere stato sempre coerente, sempre dalla stessa parte, è un inno che mi ha sempre fatto fatto piacere».
E l’offesa che non ha mai lasciato passare?
«Ci sono passato su tante volte e temo di doverci passare ancora tante. Proprio per il ruolo che ricopro è fatale che finisci nel mirino. Mi guida un vecchio adagio: male non fare, paura non avere».
Ha amici in politica?
«Sì, ma non faccio nomi, ne dimenticherei e non mi piace. Ne ho sia nella mia area politica che al di fuori, anche nell’attuale opposizione a Roma».
Ne ha qualcuno a Piacenza di sinistra? Chi?
«Un mio caro amico era sicuramente Cacciatore, persona che oggi manca tanto».
È vero che sua figlia Alessandra è di sinistra e che sulla politica non la pensate allo stesso modo?
«Non le ho mai chiesto per chi vota. Anche se so che ai tempi del liceo aveva le sue idee. Diciamo che non è la politica l’argomento principe delle nostre discussioni».
Che padre è stato?
«Presente nei momenti importanti. Con Alessandra ho un ottimo rapporto. Forse potevo dedicarle un po’ più tempo quando era piccola. Non me l’ha mai rinfacciato, ma lo sento io. E il sorriso di un adulto è diverso da quello di un bambino…».
Ieri era il Giorno della Memoria, proviamo a venire a capo della questione. Da quando governa la Meloni si continua a parlare di antifascismo. Lei fa fatica a dirsi antifascista?
«Dobbiamo all’antifascismo i valori di libertà che il fascismo aveva conculcato. L’opposto di quell’antifascismo militante che non si è preoccupato di rispettare la vita delle persone. Come quella di Sergio Ramelli, un giovane ucciso 50 anni fa a Milano a colpi di spranga perché di destra».
Le è capitato di fare il saluto romano?
«Ho sempre creduto e continuo a credere che siano i valori che rappresentano le idee e non la retorica gestuale».
Una pagina dolorosa è stata la parte dell’inchiesta collegata a quella della Valtrebbia che l’ha vista indagata. La procura ha chiesto l’archiviazione della sua posizione. A che punto siamo?
«Non lo so».
Un paio d anni fa scoprì la malattia, un tumore. Oggi come sta?
«Mi ha ricordato che devo prendere una delle dieci pastiglie quotidiane. Sto decisamente meglio, ma per chi crede si è sempre nelle mani di Dio, oltre che della scienza. Ogni tre mesi devo fare dei controlli. Ma la cosa più importante è non pensarci, lavorare e cercare di vivere come se nulla fosse».
Chi le è stato più vicino e vuole ringraziare?
«Il mondo degli affetti familiari. Però Meloni e Lollobrigida mi sono stati molto vicini, si sono spesi molto e non lo dimenticherò mai».
Ultima cosa: la premier Meloni se vede una formica si sposta e non la calpesta. Lei, invece, che fa?
«Io purtroppo faccio fatica a vederla, anche con gli occhiali. Anzi, probabile che non la veda proprio. Se la vedo, faccio come Giorgia Meloni: la preziosità della formica ce la insegna la favola di Esopo».

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