In Kosovo con gli Alpini, “Uniti per la pace”. Il reportage
11 Aprile 2015 18:46
Dal nostro inviato Nicoletta Marenghi – Mentre l’Europa cerca di abbattere i confini, c’è uno stato nel cuore dei Balcani dove si entra ancora con il passaporto e che non tutti i Paesi riconoscono come Stato. E’ il Kosovo, un territorio grande all’incirca quanto l’Abruzzo in cui vivono 1milione 800mila abitanti, il 90,2% dei quali albanesi, il 5,3% serbi. Due le lingue ufficiali, albanese e serbo. La popolazione è prevalentemente di religione musulmana ma ci sono anche ortodossi e cattolici; a Sud sventolano le bandiere dell’Albania, a Nord c’è chi vorrebbe tornare con la Serbia. Le diversità sono innumerevoli ma un’opinione è comune: “Senza la missione Nato, qui si sparerebbe ancora”.
CENNI STORICI e MISSIONE KFOR
La missione Kfor (Kosovo Force) entrò in Kosovo il 12 giugno 1999 su mandato delle Nazioni Unite in seguito alla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. Il Kosovo era una provincia autonoma della Serbia abitata prevalentemente da albanesi musulmani. Dopo la disgregazione dell’ex Jugoslavia e in particolare con l’avvento al potere in Serbia di Slobodan Milosevic iniziò un processo di abolizione dell’autonomia del Kosovo che diede avvio un braccio di ferro tra serbi e albanesi.
Ad opporsi pacificamente fu il partito di Ibraim Rugova con una resistenza non violenta, nel 1997 invece il movimento separatista Uck imbracciò le armi. I massacri e le barbarie di entrambe le fazioni sfociarono nei bombardamenti Nato del marzo 1999.
Il Kosovo, si è autoproclamato Stato autonomo nel 2008, l’Italia e altri 110 Paesi delle Nazioni Unite lo hanno riconosciuto, mentre permane l’opposizione di alcune super potenze come Russia e Cina ma anche di alcuni stati europei come Spagna e Grecia, Slovacchia, Cipro, Romania. Con la stabilizzazione della situazione la missione internazionale ha progressivamente ridotto le risorse e al momento in Kosovo sono presenti circa 500 militari italiani e complessivamente 5mila militari appartenenti a 31 Paesi.
Alla base di Peje-Pec (i nomi sono riportati sia in albanese che in serbo) chiamata “Villaggio Italia”, sono presenti militari italiani, sloveni, austriaci e moldavi.
Il comando è italiano e dal dicembre 2014, alla guida del Multinational Battle Group West, c’è il colonnello piacentino Carlo Cavalli, comandante del 5° Reggimento Alpini, di stanza a Vipiteno.
Kfor è una missione politico-diplomatica fondamentale per mantenere l’equilibrio in una situazione sotto controllo ma dove basta una scintilla per scatenare l’inferno.
“Ero qui nel 1999 e da allora sono stati fatti passi da gigante – racconta il colonnello Cavalli – oggi si vive una situazione di stabilità e sicurezza che è alla base di un futuro sviluppo economico. La sfida della missione attualmente è concentrata sulle relazioni politico-diplomatiche con le istituzioni, le autorità religiose e con la popolazione locale”. E quando si parla di mediazione e dialogo, il “made in Italy” all’estero fa scuola.
I militari italiani si alternano alla base ogni sei mesi, i sei mesi precedenti alla partenza sono caratterizzati dalla fase di preparazione. “L’esperienza all’estero per un militare – spiega il comandante – rappresenta una sfida, un impegno e un sacrificio. E per le famiglie che ci aspettano a casa il nostro periodo fuori dai confini diventa “una missione nella missione”.
IL REPORTAGE – I giubbetti antiproiettile e gli elmetti ci sono ma restano sul mezzo militare. In Kosovo non è necessario indossarli per i giornalisti embedded (a seguito delle truppe militari) e neanche per i militari stessi, a differenza di altri Teatri operativi come l’Afghanistan o il Libano. Segno che il livello di sicurezza è più elevato. E lo si percepisce girando per le strade delle città dello Stato nato nel 2008 ma che alcuni Paesi sono restii a riconoscere. I militari qui sono un punto di riferimento per tutti: per la popolazione, le autorità religiose e politiche. Il monastero di Decane è uno simboli ortodossi del Kosovo occidentale e per questo è oggetto continuo di minacce. Da anni è presidiato dai militari italiani tanto che i monaci parlano correttamente la nostra lingua. Il monastero è una perla medioevale impreziosita da affreschi originali sorprendentemente intatti come se il tempo si fosse fermato. Un’opera rappresenta Gesù con una spada, “è la spada della Parola” spiega padre Peter orgoglioso di mostrare il patrimonio artistico e culturale del monastero ma non solo. Ci sono anche animali d’allevamento e soprattutto i laboratori artigianali dove i religiosi realizzano le icone che fanno il giro del mondo. Un patrimonio che i militari italiani contribuiscono a salvare. Non è stato così per la chiesa ortodossa nel cuore di Prizen, una cittadina che ricorda Sarajevo e Mostar per i ponti di sassi che la caratterizzano. Nel 2004, insieme a tante altre chiese ortodosse, venne data alle fiamme. L’incendio divorò muri e affreschi finché, naturalmente, il fuoco si spense. L’odore acre del fumo, nonostante siano passati undici anni, è ancora nell’aria e rende più difficile dimenticare il passato. Non nasconde la paura di nuovi attacchi padre Andrej, responsabile del seminario ortodosso. Pochi giorni fa è comparsa la scritta “Uck” sul portone d’ingresso e alcuni studenti sono stati insultati. Non si sentono liberi e padre Andrej teme anche possibili attacchi da parte dei giovani che si sono uniti ai jhadisti in Siria e Iraq e sono pronti a rientrare nella loro terra d’origine. Non lontano dal seminario c’è la moschea di Tika dove ci accoglie un fedele sorridente che si offre di spiegarci la storia dell’edificio religioso senza essere l’imam o la guida. L’integralismo sembra molto lontano da questi luoghi. A manifestare ottimismo è anche don Lush Gjergji, biografo di madre Teresa di Calcutta (nativa di Skopje in Macedonia) e vicario generale della Chiesa del Kosovo. I cattolici sono una minoranza che ha sofferto durante la crisi ma che ora guarda al futuro con speranza. I segni della sofferenza si avvertono alla casa famiglia di Klina gestita dalla Caritas umbra. Qui vivono bambini e ragazzi orfani o abbandonati per i loro problemi mentali. Massimo Mazzali è arrivato da Foligno nel 1999 per portare aiuti umanitari e non è mai andato via per tentare di dare un futuro a chi non ce l’ha. Mentre parliamo ci presenta uno dei suoi bambini, Agon non parla ma prima di andare via ci porta un disegno che raffigura un aereo militare. Alla casa famiglia grazie grazie alla collaborazione tra il CIMIC (la cooperazione civile e militare) e il Sovrano Militare Ordine di Malta, è arrivato un piccolo mulino con il quale gli ospiti potranno preparare le farine e il pane e se l’attività riuscirà a trovare mercato, Agon e gli altri ragazzi potrebbero trovare lavoro nella casa che li ha accolti e salvati. Tra gli incontri organizzati per i giornalisti dal capitano Francesco D’Aniello, portavoce del contingente italiano in Kosovo, c’è quello con alcuni ex combattenti dell’Uck riuniti nell’organizzazione War Veteran Organisation, politicamente non schierata. Appeso al muro c’è un mitragliatore, “è un souvenir” scherza l’ex tenente colonnello dell’Uck Pren Marashi. L’idea che li aveva spinti ad imbracciare le armi era l’annessione all’Albania, un sogno che non hanno ancora abbandonato e che vorrebbero vedere realizzato attraverso un referendum. A Nord non siamo stati ma ci riferiscono che a Mitrovica la situazione è ben diversa, il ponte divide in due la città e la popolazione tra serbi e albanesi. I serbi vorrebbero tornare sotto l’egida di Belgrado. Economicamente il Paese è a terra. L’interprete kosovaro Reshad ci spiega che gli stipendi medi sono di circa 200 euro. Gli affitti si aggirano attorno ai 300 euro. La disoccupazione è alle stelle e per questo molti giovani si lasciano attrarre dalle sirene dell’estremismo islamico che, secondo alcune fonti, paga anche 30mila euro i cosiddetti foreign fighters.
Con Telelibertà e Libertà c’è anche il presidente del consiglio comunale di Piacenza Claudio Ferrari, insegnante di religione all’Isi Marconi che sintetizza così il viaggio in Kosovo: “Sono arrivato qui con alcune idee e mi sono reso conto che la situazione è più complessa e in continua evoluzione. La missione italiana è preziosa per l’aiuto al cambiamento di quest’area. Un viaggio come questo aiuta a capire che l’Europa deve avere attenzione per i Balcani, la zona debole del Vecchio continente”. Nella sua attività di comando, il colonnello piacentino Carlo Cavalli è coadiuvato da uno staff efficiente e preparato. Un esempio concreto delle capacità operative è stato sotto gli occhi tutti. Una sera alcuni escursionisti si sono persi sulla montagna che sovrasta la base militare e hanno chiamato la polizia. Le forze locali hanno diramato l’allarme anche ai militari italiani che in una manciata di minuti hanno individuato e riportato in paese i dispersi. Le attività da portare avanti sono innumerevoli, tra queste ci sarà certamente la questione ecologica. Purtroppo le strade e i canali sono disseminate di rifiuti. Il consumismo è arrivato ma le discariche o anche i semplici bidoni dell’immondizia scarseggiano e talvolta i rifiuti vengono bruciati come accade tristemente anche in alcune zone del nostro Paese.
In generale la situazione del Kosovo resta delicata ed è davvero difficile immaginare un ritiro completo delle forze internazionali nel breve periodo. Kfor è una missione di cui si sente poco parlare ma che sembra molto efficace, un contesto ben sintetizzato dal motto del 5° reggimento “Nec videar dum sim” Non per apparire ma per essere.
IL COLONNELLO CARLO CAVALLI – Il colonnello Carlo Cavalli è nato a Piacenza il 25 settembre 1965. Ha frequentato il 169° Corso dell’Accademia Militare di Modena e nel corso della sua carriera ha prestato servizio, fra l’altro, al 5° ed al 3° Reggimento Alpini. Nel 2004 è stato impiegato presso il Comando della Brigata Multinazionale “Salamandre” in Mostar (Bosnia-Herzegovina) quale Ufficiale addetto alle operazioni e vice capo sala operativa. Nel 2007 è stato assegnato presso il Comando Unifil quale Ufficiale di Staff. Dal 2008 al 2011 ha prestato servizio presso il Comando Supremo delle Potenze Alleate (Shape). Dal 2011 al 2012 è stato Comandante del Btg alpini Morbegno. Al termine dell’attività di comando è stato assegnato al Comando Brigata Alpina “Julia” dove ha svolto l’incarico di Capo ufficio Operazioni, Pianificazione e Addestramento. Nel 2013 ha partecipato alla missione in Afghanistan quale capo cellula Operazioni Correnti. Dal febbraio 2014 è comandante del 5° Reggimento Alpini e dal Dicembre 2014 guida il Multinational Battle Group West in Kosovo. Il colonnello Cavalli è sposato dal 1996 ed è padre di due figlie di 9 e un anno.
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