Così Caruso faceva tenere dal fratello i contatti con la cosca

26 Giugno 2019 04:10

Giuseppe Caruso e suo fratello Albino erano “a completa disposizione degli interessi della cosca, cooperando con gli altri associati nella realizzazione del programma criminoso del gruppo criminale”. Lo scrive il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bologna Alberto Ziroldi, riprendendo le richieste del sostituto procuratore Beatrice Ronchi, nell’ordinanza che ha disposto l’arresto per il presidente del consiglio comunale di Piacenza, del fratello e di altri 14 persone (compresi il boss Francesco Grande Aracri ed i figli Salvatore e Paolo) presunte appartenenti alla ‘ndrangheta che da tempo opera in Emilia Romagna.

L’organizzazione mafiosa, che operava da Modena a Piacenza, secondo gli inquirenti faceva capo al boss Francesco Grande Aracri e al figlio Salvatore. I Caruso, assieme ad alcuni altri arrestati, vengono definiti “in costante sinergia con i vertici”. Esponenti di spicco, quindi, “che partecipavano alle riunioni tra gli esponenti della consorteria in occasione delle quali venivano pianificate le condotte criminose della cosca e prese le decisioni fondamentali per il mantenimento e il rafforzamento della stessa, seguendo anche le direttive impartite dagli esponenti di vertice”. Ma erano parte attiva “nelle riunioni per dirimere conflitti con soggetti esterni alla struttura emiliana” e “agivano per allargare l’espansione del sodalizio entro il sistema economico emiliano”. Le ipotesi di reato riguardano in particolare il 2015 e non sono collegate all’attività politico-amministrativa del presidente del consiglio comunale (le polemiche politiche e lo sconcerto del sindaco Patrizia Barbieri) ed esponente di Fratelli d’Italia (da cui è stato allontanato da Giorgia Meloni).

Ma Giuseppe Caruso, era un pezzo chiave nell’organizzazione in virtù del proprio lavoro all’Agenzia delle Dogane, “mettendo stabilmente a disposizione prerogative, rapporti professionali ed amicali e gli strumenti connessi alla propria attività lavorativa”.
Unica condizione che poneva: restare il più “pulito” possibile. “Io dal di fuori ti posso dare una mano – diceva intercettato – mi posso muovere se c’è un problema, ma se vengo segnalato non mi posso muovere più. Io ho molte amicizie da tutte le parti: bancari, oleifici, industriali. Quindi io so dove devo bussare, se mi tieni all’esterno ti dà vantaggio, se mi immischi, mi hai bruciato”.
Ecco perché, secondo gli inquirenti, era il fratello Albino Caruso “a tenere i contatti per conto del fratello, onde non esporre quest’ultimo a controlli delle forze dell’ordine per rapporti con pregiudicati in odore di mafia e contribuire a tenere “pulito” il volto del fratello”.

 

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