Diario dall’Uganda: ad Alito tra i contadini-allevatori di Agribusiness
21 Novembre 2019 08:55
Prosegue il viaggio di operatori e volontari di Africa Mission partiti sabato 16 novembre per l’Uganda in missione benefica. Con loro, anche alcuni studiosi dell’università Cattolica di Piacenza. Lo scopo del viaggio è quello di supervisionare i numerosi progetti che l’associazione sta portando avanti in Karamoja, ma anche celebrare il venticinquesimo anniversario della morte di don Vittorio Pastori, che nel 1972 fondò il movimento Africa Mission nella città di Piacenza.
Della comitiva fa parte anche la giornalista di Libertà Betty Paraboschi che dall’Uganda sta scrivendo un diario di viaggio.
Martedì 19 novembre – Cinque ore di macchina su una strada per metà sterrata bastano. Bastano anche i 34 gradi delle sei del pomeriggio che oggi però saranno stati almeno tre in più. Tutto basta per imparare un nuovo modo di fare accoglienza: sporchi e accaldati visitiamo Adjumani: un distretto, 18 campi, quasi 228 mila rifugiati che arrivano dal Sud Sudan. Africa Mission Cooperazione e sviluppo lavora in otto di questi con 136 mila rifugiati. Ci sono otto scuole primarie con classi da 120 bambini. Nel dispensario ogni mese ne nascono 75; 100 invece vengono al mondo in casa, o meglio nelle baracche. Dorkless ci mostra le sue: ha 35 anni, due gemelli, un compagno, un padre che era medico e una storia ingombrante alle spalle. Rifugiata in Kenya dal 1992 al 2011, arrivata in Uganda il 26 marzo 2013 con la mamma. Oggi è leader di comunità, interviene a disinnescare conflitti che qui e ora, nella complessa convivenza fra sudsudanesi e ugandesi, rischiano di far più danni delle bombe. “In Kenya non avrei potuto farlo, Africa Mission e lo stato ugandese mi hanno dato tutto”. Dentro quel tutto ci sono un documento che viene rilasciato ai rifugiati immediatamente quando arrivano e che permette loro di essere pienamente ugandesi, di avere i loro stessi diritti: di cercare un lavoro, di comprare una macchina o un pezzo di terra. All’arrivo ad Adjumani ognuno riceve il necessario per costruirsi la propria casa, un appezzamento da coltivare e delle borse viveri che periodicamente sono distribuite. I bambini vengono mandati a scuola, le donne filano coperte e tovaglie colorate. Chiaramente i problemi ci sono anche qui: alle famiglie si fa fatica a far capire l’importanza del controllo delle nascite e le madri spesso sono loro stesse bambine. Il governo ugandese ha un interesse nel promuovere un’accoglienza tutta alla luce del sole (e che sole) perché la trasforma in un motore dell’economia. Che, a ben pensarci, è quello che noi facciamo così fatica anche solo a immaginare.
Mercoledì 20 novembre – Il numero magico, ad Alito, è cento. O quasi. Cento sono più o meno i ragazzi dai diciotto ai ventotto anni che studiano per diventare contadini o allevatori. Cento, più o meno, sono gli ettari che la scuola di Agribusiness fondata da Africa Mission Cooperazione e Sviluppo ha riempito di pomodori, zucchine, manghi, insalata, zucche. Cento, più o meno, sono i conigli e altrettanti i maiali e le galline e i pesci che questa fattoria, nata dalla terra rossa di Alito, conta. E che servono agli agricoltori e allevatori di domani.
Il nostro terzo giorno ugandese ci porta lì dopo aver salutato le missionarie comboniane di Gulu: alle quattro del mattino suor Giovanna ci ha preparato il caffè, le fette di pane tostate, la marmellata di mango preparata con le consorelle. Alle cinque la partenza che ci permette di scoprire una Gulu dall’intensa vita notturna e di arrivare, attraverso una strada che taglia in due la terra rossa, ad Alito alle sette. Pietro e Norberto, che da un anno fanno parte della grande famiglia di Africa Mission Cooperazione e Sviluppo, ci accolgono con molto caffè e tante parole corroboranti che ci serviranno dopo per capire meglio il grande progetto della scuola di Agribusiness. L’obiettivo non è solo quello di formare a stretto giro, sei mesi per intenderci, dei coltivatori e degli allevatori: e quindi di garantire all’economia di girare attraverso delle persone qualificate. Attualmente ad Alito metà studenti proviene dal Sudan e metà conta dei ragazzi ugandesi del distretto di Adjunami: per chi arriva da fuori non significa nulla, ma chi abita questa terra rossa sa che l’unione fra chi è scappato dal suo Paese e le popolazioni locali è complicata. La collaborazione lo è ancora di più. Lo spirito della scuola, chiamata anche Training Center, è dunque quello di costruire una società unita, resistente. In poche parole: dare gambe forti all’Uganda del futuro perché si possa muovere senza incertezze nel mondo globalizzato. La dimostrazione di quanto questa impresa stia riuscendo ce la danno gli studenti e gli ex studenti venuti ad accoglierci e a salutare monsignor Giuseppe Franzelli, vescovo storico di Lira fino a qualche mese fa: Rebecca che coltiva i cavoli che mangiamo a pranzo, un’altra ragazza che ha moltiplicato i suoi cinque alveari arrivando a trenta. I numeri però danno poco conto della realtà di Alito: sono soggettivi, cambiano di bocca in bocca. È oggettiva invece, concreta la magia che porta l’Uganda a essere non più o meglio non solo la terra della fame, ma un rigoglioso giardino d’Africa con un futuro.
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