Il vescovo: “La vita non è un videogioco. Ora li immagino come amici-custodi”
21 Gennaio 2022 16:10
I funerali di Elisa Bricchi, Costantino Merli, Domenico Di Canio e William Pagani, gli amici morti nel tragico incidente in Trebbia, sono stati celebrati dal vescovo della Diocesi di Piacenza Bobbio, monsignor Adriano Cevolotto.
L’OMELIA DEL VESCOVO – Quanto è difficile scrollarci di dosso la nebbia, il buio e il freddo di quella notte. In questi lunghi 11 giorni sulle parole è prevalso il silenzio. È il silenzio che avvolge questa nostra assemblea. Le domande e i perché ci sono tornati senza risposta. Perché la morte, tanto più quando giunge a vent’anni, è assurda. È ingiusta.
Constatiamo che le nostre parole, come la nostra vicinanza per quanto cercata e apprezzata, sono incapaci di scaldare il cuore, di aiutarci ad alzare lo sguardo per non essere risucchiati nel vortice di dolore per coloro che all’improvviso non ci sono più al nostro fianco.
Le domande fatte rimbalzare in questi giorni dichiarano che siamo alla ricerca di una Parola che rompa il silenzio, invocano che il buio e il freddo siano illuminati e riscaldati. Non ci rassegniamo che il dolore non sia alleviato e consolato. Perché rimanere imprigionati in quella nebbia è morire. A nostra volta. Ma vivere lo dobbiamo anche a loro.
Siamo qui con una sola invocazione: “parla Signore, vieni! Non possiamo rimanere a lungo così”. E Lui ci sta rispondendo facendo risuonare la sua Parola. Ascoltiamo.
Queste due sorelle, Marta e Maria, sorelle di Lazzaro e sorelle nostre, ci mettono in bocca, senza che sembri indelicato e scorretto, il rimprovero a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Mio figlio, mia figlia, mio/a nipote, i miei amici…non sarebbero morti. Dove eri? Nel Vangelo c’è spazio per un rimprovero, per una protesta ferma verso Colui che credevamo amico. Amico della vita. In particolare, amico dei sogni della loro giovinezza. Amico della vita messa in rima e cantata al ritmo di un passo spedito e incalzante.
Il rimprovero ci sta perché nel racconto evangelico scopriamo che Gesù alla notizia della malattia di Lazzaro, indugia, tarda a partire. Sembra dirci che la morte, anche per i suoi amici, c’è. Che l’orizzonte nel quale viviamo è finito. Che non c’è una misura media di anni da vivere. È drammaticamente reale: la morte arriva. Anche se non ci pensiamo, anche se allontaniamo ogni segno che la richiami. Per Lazzaro la morte tornerà anche dopo che Gesù lo fa tornare in vita.
A questo punto, a morte avvenuta, Gesù interviene: non per salvare temporaneamente l’amico, ma per risorgerlo dai morti, definitivamente: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”.
La sua non è un’affermazione distaccata: è pronunciata dentro un coinvolgimento profondo: “Gesù (…) si commosse profondamente (…) e scoppiò in pianto”. Di fronte alla morte ci sono anche le lacrime del Figlio di Dio, che si uniscono alle nostre. Gesù in questi giorni ha mescolato le sue lacrime alle nostre perché anche per lui è motivo di profondo dolore quando la vita viene colpita. Come per ciascuno di noi, anche per Lui la morte è un paradosso: il desiderio di vivere non è di una stagione. È di ogni età, di ogni istante. Di ogni condizione. Anche quando, in ogni fase dell’esistenza, facciamo i conti con i segni di morte: la malattia così come ogni altra esperienza e condizione che mortificano il nostro desiderio di vivere. Anche le cose più grandi e più belle, come l’amore, le aspirazioni più promettenti impattano con insuccessi, delusioni, fallimenti… Ma nonostante tutto c’è un desiderio che si rinnova perché la vita è più grande di ogni sua realizzazione: c’è più vita, più sete di amore, più ricerca di gioia che giorni perché tutto questo si realizzi pienamente.
Per chiunque vive in Lui, per chi è unito a Lui, in forza del Suo amore, la morte non ha l’ultima parola, i desideri si compiranno (“… non morirà in eterno”). Dieci, venti, cinquanta o
ottanta anni non sono mai abbastanza per colmare la sete di vita che c’è in noi. Solo in Colui che è la Vita, che è l’Amore sarà possibile saziarci e dissetarci.
“Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”. È vero, e come è vero, che l’esperienza che stiamo patendo è la separazione, lo strappo. In questo momento penso in particolare a voi mamme e papà, a voi fratelli e sorelle. Vorremmo aggrapparci ad ogni cosa per non lasciarci scippare la loro presenza. Ma da noi non riusciamo ad evitare la conseguenza prima della morte che è il distacco.
San Paolo ricorda che c’è solo un amore che è più forte di ogni avversità e addirittura della morte. È l’amore di Cristo. Questo Amore tiene uniti noi a Lui e, in Lui, ci tiene uniti, tra di noi. Il ricordo è ciò che promettiamo e che speriamo riesca a mantenerci uniti ai nostri cari, perché è tutto ciò che possiamo garantire. Ma il ricordo non tiene in vita. Tiene viva la memoria. È l’amore di Cristo più forte dell’oblio del tempo e della morte che ci separa. Quanto più siamo uniti a Lui, tanto più rimaniamo partecipi della sua vittoria pasquale sulla morte. In forza della Sua vittoria essi continuano a vivere. In forza del Suo amore rimane viva la relazione tra noi e loro.
È una parola di speranza quella che risuona tra noi oggi: niente ci può separare dal suo amore (nessuna tribolazione, nessun pericolo… come nessun nostro allontanarci da Lui o il mollare la presa della sua mano). La presa la tiene forte Lui e non permette che nulla ci strappi dalla sua mano. In quel pianto di Gesù c’è il suo dolore, ma insieme la forza che lo spinge a farci uscire fuori. Dal baratro di un sepolcro. In questo momento è la sua Parola a far uscire dagli inferi della morte Elisa, Costantino, William e Domenico. E noi con loro. Li chiama per nome, con quel nome con il quale da sempre li ha conosciuti ed amati. Di un amore fedele. Continua a chiamarli per nome, perché così rimangono in vita. Chi vive e crede in me… non morirà!
Ed ora mi rivolgo a voi, cari amici e coetanei di questi nostri giovani fratelli. Non riusciamo né (forse) riusciremo mai a spiegarci questa morte. Però una cosa possiamo e dobbiamo considerare: la nostra vita, così preziosa e ricca, è estremamente fragile. È un cristallo. Non è dei giovani, certamente, la prudenza e il ponderare tutte le cose, ma dobbiamo/dovete vigilare per non cadere nella logica del videogioco: che ci fa pensare che abbiamo a disposizione un’infinità di vite. Che sia possibile resettare la partita, per ricominciarne una da capo. Le nostre scelte, i comportamenti che mettiamo in atto sono splendidamente e drammaticamente realistici. Costruiscono o distruggono il presente e il futuro. Una, una sola è la vita, da vivere intensamente, e tuttavia da custodire perché vulnerabile. Allora mi piace immaginare Elisa, Costantino, Domenico e William ora come vostri amici-custodi che insieme ad alimentare i sogni e le speranze indispensabili per vivere, vi richiamano, quando fosse necessario, alla misura del limite. Alla misura della vita.
La partita della vita è un gioco di squadra, perché è sotto i nostri occhi, nel bene e nel male, nei sogni coltivati e nel loro infrangersi, che siamo uniti. Che ci dobbiamo custodire l’un l’altro. Con responsabilità. Che questa sia la nostra e la vostra forza sulle strade della vita. E in questa partita Gesù partecipa, non da spettatore, ma come il primo a mettersi in gioco. Perché tutti abbiano la vita. In abbondanza.
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