Fotomontaggi osé di ragazzine: “Se gli ordigni sono digitali”. Il commento

14 Maggio 2024 10:52

Sono in corso le indagini coordinate dalla Procura di Piacenza per far luce sulla vicenda della vendita di fotomontaggi osé di studentesse minorenni i cui genitori si sono rivolti ai carabinieri. Le immagini sono state create con l’intelligenza artificiale. Nei guai sono finiti tre ragazzini delle scuole medie.

IL COMMENTO DEL DIRETTORE EDITORIALE GIANLUCA ROCCO

L’orribile vicenda dei fotomontaggi di ragazzine delle medie creati e venduti da coetanei, mi ha fatto pensare a due cose. Primo, a mia figlia che ha proprio quell’età, frequenta la terza media e vive in un mondo completamente diverso da quello in cui sono cresciuto io e la mia generazione di quaranta-cinquantenni.

Ho immaginato di ricevere la notizia o, peggio, una fotografia del genere e mi sono chiesto cosa avrei fatto. Probabilmente quello che hanno fatto i genitori delle vittime: andare alla polizia.

La seconda riflessione, invece, riguarda la tecnologia e l’uso che se ne può e se ne deve fare. La tecnologia ha segnato in modo indelebile la storia dell’umanità. Da sempre è stata la spinta che ha permesso alla razza umana di progredire, di ampliare la sua conoscenza. Dalle punte delle frecce alla scoperta del fuoco, dalla ruota al motore a scoppio, ha consentito all’uomo di emanciparsi rispetto alla bestia feroce che, senza scomodare Hobbes e il suo “homo homini lupus”, tenderebbe naturalmente ad essere.

Ma, è inutile negarlo, la tecnologia è anche un ordigno pericoloso. Oggi la situazione è la peggiore possibile, perché esistono nuovi modi di “fare male”, di creare profondissimi traumi a chi si trova all’interno del meccanismo, stritolato in un’arancia meccanica virtuale dove i drughi di turno non picchiano con le mazze bevendo latte più ma pestano ancora più forte con fotografie e video diffamatorie che devastano la reputazione e la vita della vittima, magari bevendo una bevanda con il proprio cellulare in mano. La tecnologia, oggi, permette praticamente ogni operazione a bassissimo costo.

Un fotomontaggio, un tempo che potremmo definire cinque anni fa, era un processo tanto difficile da essere ad appannaggio di soli addetti ai lavori. Bisognava possedere un computer, una connessione potente a Internet, un programma di grafica evoluto, saperlo usare, avere la possibilità di scaricare foto o video in digitale, trovare il materiale da “fotomontare”, lavorarlo e poi diffonderlo attraverso strumenti farraginosi e comunque tracciabili come le e-mail.

Oggi basta un cellulare e una app che si può scaricare probabilmente gratis a patto di sorbirsi qualche pubblicità, e, con Telegram e Whatsapp, il gioco è fatto. Ecco che il perverso universo del deep fake, raccontato e spiegato molto bene negli articoli di Gustavo Roccella su Libertà di ieri, spalanca le sue porte a chi vuol portare un po’ di caos nel mondo degli altri. Il loro utilizzo è davvero semplice: l’intelligenza artificiale lavora l’immagine secondo il nostro “gusto” e le nostre esigenze, siano creare una Meloni che balla sulle note di Bella Ciao o una teenager svestita di tutto punto.

Uno strumento potentissimo che, in mano a ragazzini con più ormoni in corpo di un manzo americano d’allevamento intensivo, diventa anche molto pericoloso. Perché quegli stessi ragazzini hanno capacità di apprendimento tecnologiche da nativi digitali. I quattordicenni di oggi, sono praticamente nati con il touch pad in mano. Sanno utilizzare tutti i dispositivi, sanno creare video (i social gli impongono di saperlo fare!), lavorare le fotografie, utilizzare ogni possibilità che i loro smartphone offrono. Hanno la possibilità di creare veri e propri ordigni digitali, come le fotografie che hanno diffuso a Piacenza, come estremisti che assemblano molotov. Con la differenza che, probabilmente, mentre i secondi sicuramente hanno ben in mente la potenza esplosiva delle loro “creazioni”, per i giovani coinvolti in questa brutta storia si è trattato di un gioco.

Perché non hanno la contezza di quello che fanno, non hanno la percezione del valore distruttivo nelle vite delle persone del materiale che maneggiano e diffondono, vero e proprio esplosivo al plastico capace di detonare l’intimità di chi si trova nel raggio dello scoppio. O almeno è quello che vogliamo, da genitori ed educatori, a credere: l’alternativa sarebbe una totale incapacità di empatia, un’anaffettività quasi patologica.

Diamo a questi giovani il beneficio del dubbio, ma non è comunque facile trovare soluzioni: la tecnologia non si può fermare ed è giusto così. Per ogni ordigno digitale creato, l’intelligenza artificiale ci aiuta a risolvere un problema, avvicinarci alla cura di una malattia, semplificare e migliorare davvero la vita di tutti. Sarebbe banale puntare il dito contro i genitori, sul mancato controllo, sulla mancanza di educazione. Serve un processo pedagogico, serve comprensione dei ragazzi, serve sicuramente il tempo di sedersi qualche volta insieme a loro e spiegare in modo semplice le conseguenze che un atto del genere può creare, i danni che una foto osé diffusa tra decine di coetanei può provocare.

E il primo passo del percorso educativo spetta proprio agli adulti. In primis, perché spesso il genitore è il cattivo esempio: il tempo passato insieme al proprio figlio si trasforma in tempo passato ognuno davanti ad uno schermo spesso diverso. Per non parlare dell’uso che gli adulti per primi fanno dei social, tra video che i ragazzi definirebbero “cringe”, sfoghi, insulti, profili quantomeno discutibili visitati.

E poi, in secondo luogo, ricordarsi che i nostri figli non saranno mai come noi. È una generazione che ha un potenziale, anche tecnologico, incredibile che va, come ovvio, indirizzato, canalizzato, compreso, spiegato.

Consideriamoli dei piccoli Oppenheimer: il nostro lavoro educativo, il nostro piccolo Progetto Manhattan però, sia quello finalizzato a creare energia di pace e non un ordigno, digitale o reale, capace di annientare gli altri.

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