Fallaci e la casa in vendita a New York, parla l’erede: “Di mia zia contano i libri”

19 Ottobre 2024 04:49

A cura di Thomas Trenchi – Fotoservizio di Alice Morelli

L’elmetto del Vietnam, lo zaino utilizzato al fronte, la toppa dell’Apollo 12, la prima stesura di Lettera a un bambino mai nato, i passaporti pieni di timbri e la green card. Nel salotto di Edoardo Perazzi, nipote ed erede universale di Oriana Fallaci, la storia si tocca con mano, attraverso i documenti, i reperti e gli scritti lasciati da sua zia, “l’Oriana”, così la chiama, senza dimenticare l’articolo davanti al nome, nella buona tradizione toscana. “L’Oriana”, giornalista e scrittrice (“scrittore”, preferiva lei) simbolo del Novecento. Incontriamo Perazzi a Milano, in attesa dell’uscita della miniserie “Miss Fallaci” su Rai 1, per indagare ciò che resta oggi della sua memoria e scoprirne un altro volto.

Dal capoluogo lombardo, lo sguardo si sposta anzitutto su New York. Non potrebbe essere altrimenti. È l’11 settembre 2001: il cuore dell’Occidente viene trafitto da due aerei che sono dirottati contro le torri Nord e Sud del World Trade Center, nel quartiere Lower Manhattan, e lei si getta sulla macchina da scrivere, si affida alle parole, attacca la cosiddetta “Eurabia”, si scaglia contro l’islamismo, esorta l’Occidente a svegliarsi. Lei è Oriana Fallaci e quello è l’articolo – poi divenuto un libro, La rabbia e l’orgoglio, venduto in tutto il mondo – che le imprime un timbro nella memoria collettiva, nel bene o nel male, e forse soprattutto quest’ultimo, perché offusca una densa, lunghissima e importante carriera che va ben oltre l’11 settembre. C’è di più. Le interviste ai potenti della storia: lei che sapeva metterli a nudo. I reportage appassionanti dai conflitti più caldi del pianeta: lei che fu la prima donna italiana ad andare al fronte come inviata speciale. I racconti della Resistenza: lei che partecipò giovanissima alla Liberazione d’Italia come staffetta partigiana. La grande avventura della conquista spaziale: lei che diede voce agli astronauti, alla Terra, al Sole e alla Luna. Le indagini sul mondo femminile: lei che viaggiò in Oriente, ma non solo, per raccontare la condizione delle donne. C’è tanto altro. Sullo sfondo, però, c’è sempre la “sua” America, New York, di cui fu una delle grandi icone e dove si recò per la prima volta nel 1955, scegliendo poi di abitarci, rendendola il rifugio del suo silenzio per dieci anni, dopodiché il palcoscenico del ritorno irruente nell’opinione pubblica post-11 settembre, fino all’ultimo volo nel 2006, prima di morire, a Firenze. New York: il suo primo amore, la sua ultima tana.

Il dialogo di Libertà con Perazzi parte dunque da qui: cosa resta, a New York, della giornalista e scrittrice toscana che ha segnato un secolo? Poco, purtroppo. Quantomeno, è la nostra sensazione: il suo villino nell’Upper East Side di Manhattan è sventrato, in vendita. Nemmeno una targa all’esterno dell’abitazione ricorda la sua presenza nella “Grande mela”. E lungo la 26esima Strada, la libreria Rizzoli – ovvero la sua storica casa editrice – non ha alcun libro di Fallaci sugli scaffali.

Perazzi, il rapporto tra New York e Oriana Fallaci, dopo la sua scomparsa, si è interrotto?
“In generale, oggi, i giovani non conoscono l’Oriana, la sua opera e le figure del Novecento che ha raccontato per una vita intera attraverso le sue interviste e i suoi articoli. La memoria storica si è persa. Ma già nell’ultimo periodo, mia zia frequentava meno New York: non usciva più di casa, si rifugiava da quella città turistica, dura, scomoda. Voleva ritrovare le sue origini, venendo a morire a Firenze. Se non ci fossero stati certi problemi in famiglia, avrebbe frequentato di più il Chianti negli ultimi anni”.

In che stato è oggi l’abitazione di New York, sede di incontri e interviste con i protagonisti dello scorso secolo?
“Al momento ci sono in corso alcuni lavori di sistemazione. L’intenzione è di venderla, i costi per mantenerla sono eccessivi”.

Fu la sua unica casa newyorkese?
“No. La sua prima abitazione a New York era molto bella, situata sulla 57esima strada, proprio sopra la Rizzoli, al settimo piano. Quella casa era caratterizzata da una lunga fila di finestre che inondavano di luce la grande sala, la sua stanza preferita. La prima volta che fui ospite dell’Oriana era Halloween: tutte le zucche erano state intagliate da lei stessa, un ricordo indelebile. Nel 1981, si trasferì appunto al numero civico 222A sulla 61esima strada. In ogni stanza c’era una televisione sempre accesa, spesso su Rai News, da cui riusciva a cogliere tantissime informazioni, oltre ai canali americani. L’Oriana era una figura strana e unica, quasi una strega: aveva un’incredibile capacità di capire esattamente le notizie”.

C’è il rammarico di non avere trasformato la casa nell’Upper East Side in un museo o un luogo legato alla sua memoria?
“Non avrebbe avuto senso. L’idea originale, che ho esplorato, era di promuovere una fondazione e renderla visitabile, ma questo percorso non è stato praticabile. E una casa-museo, in fondo, non sarebbe stata utile, perché l’Oriana rivive con i suoi scritti. Non è retorica. L’abitazione in sé, tra l’altro, non aveva alcun fascino. Certo, era chic e dignitosa, con un gusto stravagantemente romantico e tanti ritratti, cimeli di guerra e, soprattutto, libri. Ma era pure un caos: sembrava bombardata, rifletteva la sua personalità”.

Non c’è nemmeno una targa che indica il suo nome all’esterno della casa. Perché?
“In realtà, una targa è rimasta posizionata per circa dieci anni sull’albero davanti all’abitazione. Adesso non c’è più. Conta ciò che ha scritto”.

Perché Fallaci amava l’America?
“Dalla fine degli anni Sessanta si sentiva newyorkese, anche se ottenne la green card solo nel 1981, non sapevo così tardi, l’ho scoperto dopo la morte, ritrovando il documento tra le sue cose. Parlava bene l’inglese, con uno stravagante accento. All’Oriana piaceva parecchio la cultura americana, ovvero la possibilità di sentirsi libera di fare ciò che voleva, senza essere giudicata. Era una figlia della Resistenza, quindi gli americani erano i padri e i salvatori. Mio nonno Edoardo, suo padre, le trasmise la gratitudine per quel popolo. Ciò non le impedì di criticare gli Stati Uniti, a partire dallo star system”.

E proprio i divi, in particolare il mondo della moda, sono al centro di un nuovo libro postumo che uscirà a breve, vero?
“Esatto. L’editing è terminato, la prefazione sarà firmata dalla stilista Maria Grazia Chiuri. L’uscita è prevista nella prossima primavera”.

Quale sarà il titolo?
“Per ora la bozza di titolo è Processo alla minigonna, ma cambierà”.

Ci sono altre opere postume che vorrebbe pubblicare?
“Ho individuato sei argomenti ritenuti frivoli, di cui l’Oriana scrisse in particolare tra gli anni ’50 e ’60, come il cinema, la moda, lo sport, la musica e i nobili. Lavoro con un gruppo eccellente di editor, in Rizzoli abbiamo un archivio dell’Oriana con i suoi articoli suddivisi per argomento, poi li riproponiamo come saggi. C’è una parte di lei, quella giovanile, tutta da riscoprire”.

E chissà quanti documenti, scritti, reperti a cui mettere mano. Vero?
“Sì, l’Oriana conservava tutto. Era meticolosa, ma anche disordinata. Ci sono lettere incredibili che inviava e riceveva da attori, celebrità, politici. Il riordino degli archivi non è stato semplice. Qualcosa era andato perso, pensate che ho ritrovato una cassa con alcuni suoi documenti in vendita su Ebay in Delaware. L’ho comprata per circa 5mila dollari. E sono riuscito a raccogliere tutte le copie dell’Europeo con i suoi articoli attraverso le biblioteche, i mercatini e le collezioni private. Mi ha aiutato una studentessa di Pavia, una dei tanti giovani che mi contattano, quasi una volta al mese, per scrivere la tesi di laurea su Fallaci”.

Pubblicare un libro postumo è un compito assai arduo, una responsabilità delicata di fronte alla memoria di un’autrice, non crede?
“Certo. Non è detto che tanti progetti li avrebbe proposti ai lettori. Anzi, se avesse sospettato che li avrei pubblicati, mi avrebbe buttato nell’olio bollente. Altroché erede universale… Un esempio: detestava il suo libro Penelope alla guerra, ma io ho cercato di valorizzarlo perché lo reputo bellissimo”.

Il centrodestra ha più volte citato la Fallaci post-11 settembre come un simbolo di libertà. Gli accostamenti politici la infastidiscono?
“Preferisco stare alla larga dagli utilizzi politici dell’Oriana, e cerco di evitare che la sua memoria venga strumentalizzata. L’anno scorso, mi sono opposto legalmente all’uso del nome e dell’immagine di mia zia per una manifestazione della Lega. Vi racconto un aneddoto però…”.

Prego.
“Due anni fa, ho ricevuto una telefonata da Roma. Pensavo che fosse uno dei soliti numeri commerciali. Ho risposto, era la segreteria della Presidenza del Consiglio: Giorgia Meloni voleva presentarsi e condividere con me il suo apprezzamento per l’Oriana. Stranamente, la telefonata si è chiusa senza alcuna richiesta”.

Della Fallaci post-11 settembre, cioè dopo gli attentati alle Torri gemelle, si è detto tanto: le reazioni del pubblico italiano e internazionale, il sostegno culturale e politico, i dibattiti, le accuse di islamofobia e le minacce nei suoi confronti. Cosa, invece, non è stato detto?
“Per l’Oriana la reazione della sinistra, di quel buonismo esasperato, fu incomprensibile. E per lei, con le pattuglie dei carabinieri in Toscana e le auto dell’Fbi sotto la casa a New York, non fu un periodo facile. Diceva la sua e faceva la dura, ma in realtà visse quegli anni con sofferenza. Si era espressa in un ruolo di  coscienza civile, gli attacchi la indignavano e la ferivano”.

Torniamo alla domanda iniziale: perché oggi l’opera di Fallaci ha perso una certa popolarità?
“Credo che l’Oriana sia stata dimenticata da qualcuno anche a causa di un gap generazionale dovuto al suo lungo e improvviso silenzio. Infatti, nel 1990 l’uscita di Insciallah, su cui la Rizzoli aveva investito diversi milioni in promozione, traducendolo già in anticipo in tutte le lingue, fu un disastro. Tante persone comprarono il libro, ma poche lo lessero. Era un romanzo complesso, che raccolse varie critiche, e lei si offese. Sparì per dieci anni, mettendosi a lavorare a Un cappello pieno di ciliege, la saga della famiglia Fallaci, pubblicato postumo nel 2008. Era il progetto a cui teneva di più. Dopo la sua morte, non a caso, ho ritrovato diversi nastri degli anni ’70 in cui l’Oriana intervistava i miei prozii. Pensava a quel romanzo da una vita intera”.

Ci racconti.
“Lavorò maniacalmente per ricostruire i fatti storici legati alla nostra famiglia. Le ricerche avevano una precisione a tratti folle, ad esempio voleva indicare esattamente l’orario di un traghetto partito in un certo giorno, mese e anno del secolo scorso. Completò tutta la stesura, tranne la parte del Novecento. Prima di morire, mi disse di pubblicare il libro così com’era”.

Anche il titolo era già pronto?
“Aveva elaborato tre ipotesi, di cui una orrenda che evito di riportare. L’altra, oltre a Un cappello pieno di ciliege, era La cassapanca di Ildebranda, un personaggio citato nel libro. Certe volte, le idee per i suoi titoli erano orrende. Insciallah avrebbe voluto chiamarlo Il terzo camion”.

Nel 2006 Fallaci volle tornare a Firenze per morire, dopo una lunga battaglia contro l’Alieno, il cancro. Come andarono quei giorni?
“Qualche mese prima, l’Oriana volle recarsi in Italia, con la scorta, senza dire niente a nessuno, per incontrare privatamente Papa Ratzinger. Non ho mai saputo il contenuto del loro colloquio. Ma quel viaggiò la stancò parecchio, e penso che accelerò la sua fine. Nel giugno del 2006, poi, mi telefonò: ‘Sto morendo, imbecille, devi venire qua ad aiutarmi per il passaggio delle consegne’. Non la vedevo da febbraio, la trovai malissimo. Voleva venire a morire a Firenze, ma il viaggio era complicato. Era in barella. C’erano varie ipotesi, tra cui un volo pagato da lei attorno a 100mila dollari o un volo di Stato che era stato proposto dall’allora ministro Rutelli. Alla fine, tramite il cappellano di Montecitorio e amico dell’Oriana, monsignor Rino Fisichella, utilizzammo un aereo privato messo a disposizione da Berlusconi. A bordo, con lei, c’eravamo io e due medici del San Raffaele. Ricordo che dagli oblò spuntò l’aurora boreale, mi piace pensare che anche l’Oriana sia riuscita a vederla. Poi atterrammo a Firenze tra i giornalisti”.

Se oggi Fallaci fosse ancora tra noi, di cosa si occuperebbe?
“Beh, senza dubbio delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Ma nelle settimane prima di morire, mi disse che i prossimi conflitti sarebbero stati combattuti per l’acqua. Il tema dell’ambiente le interessava parecchio. Credo che oggi vorrebbe incontrare Greta Thunberg”.

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