“Senegol”, il campo per i 250 bimbi che cambia prima di tutto noi grandi
09 Gennaio 2025 13:53
Al ritorno, dopo dieci giorni tra Saly e Mbour, in Senegal, qui dove in pochi metri si contano 1.200 piroghe e almeno 11mila pescatori, la valigia saprà di burro d’arachidi e miglio, un odore che a Piacenza non c’è, come tutto il resto impossibile da etichettare. Colori (quanti), sapori (diversi). Sensazioni (come si metabolizzano?).
Poi, salterà fuori la sabbia del giallo e molle deserto di Lampoul, anche se credevi di aver lavato a fondo lo zaino e le ginniche. Non la si ferma, la sabbia; ogni singolo granello è un decimo di millimetro, eppure si attacca come Vinavyl alle tue certezze, le scrolla come fosse un masso, è vento fatto di vento.
Il calciatore Omar Daffe – lo ricordate: quando era nell’Agazzanese lasciò il campo per protesta contro gli insulti razzisti diventando un caso nazionale – questo fa da dieci anni con l’amico fraterno Vincenzo Ramundo, di Castelsangiovanni, che presiede l’associazione Calcio Dilettanti Solidarietà: scrolla le certezze anche quando ci si sente solo un granello di sabbia.
Organizza viaggi Italia-Senegal che aiutano a riammorbidire lo sguardo stinto, stanco e stereotipato dell’Occidente. Così da dieci anni tondi squarcia il velo di Maya più denso, rigido: pensiamo banalmente di essere grandi, e invece siamo infinitamente più piccoli di un granello davanti alla complessità del mondo.
“Meglio vedere una volta che sentire cento volte”, ripete il papà di Omar, un colonnello dell’Esercito oggi in pensione. Aiuta Omar a stoccare e sistemare gli aiuti arrivati dall’Italia, perché vengano dati subito agli orfanotrofi, alle scuole di calcio che tolgono i bimbi dalla strada, alle scuole. A chi ha bisogno.
Gli scatoloni incellofanati arrivano dalla Lega Serie A, dalle sue squadre, dalle squadre anche dilettantistiche (Ramundo fa parte degli amatori Real Suzzano), da aziende, privati, scuole (i genitori dell’asilo Haiku, per dirne uno), Università Cattolica.
Il viaggio si rivela un viaggio in un Paese in crescita febbrile, rocciosa. “Là hanno trovato un nuovo giacimento di zirconi”, si sente dire in strada, da poco atterrati a Dakar, il 28 dicembre. E poco distante, si parla del petrolio. Del gas, dell’energia. A Lampoul si scava tutta la notte: c’è un Senegal giovane e in risalita, che costruisce e studia, sventola la bandiera dell’orgoglio di una terra sacra e tenacemente in pace.
Omar e gli altri, figli della diaspora, evidenziano che quel che è del Senegal finisce altrove. Uno scippo strutturato: l’autostrada, ad esempio. Tutto l’incasso vola in Francia, ça va sans dire. Per questo la gente – lo si respira, lo si tocca – è elettrizzata al pensiero del possibile riscatto del nuovissimo governo di Bassirou Diomaye Faye.
Dice che quel che è del Senegal resterà in Senegal, lo ha promesso e loro se lo sono annotati come un nodo al fazzoletto, basta prendere ordini dalla Francia: per questo il neo premier ha stravinto, qui dove lo stipendio medio si aggira sui 150 – 200 euro e chi non può permettersi di pagare la scuola ai figli finisce per mandarli nelle “fanta-scuole” mnemoniche di Corano dove un bambino per pagarsi un pasto passa le giornate a chiedere l’elemosina, scalzo e sporco, in strade dove l’asfalto bolle a 40 gradi, e con in mano un pentolino. Tra abusi e accattonaggio, li chiamano talibè, schiavi dell’elemosina, e vederli non fa che farci vergognare anche solo di essere nati dalla parte ricca del mondo, fino a che lo sguardo non si abitua paradossalmente per protezione pure a questi “sciami” di tenere vite, e non dovrebbe mai essere così.
“Ci sono due problemi soprattutto, oggi”, racconta Omar Fall, la guida che venne in Italia nel Novanta, per lavorare in Sardegna. “Le condizioni dei talibè e la plastica, ovunque”. Ce ne sono chili a lato strada: e le colline di plastica vanno a fuoco. Punto di forza, invece: “La pace. Qui siamo a maggioranza musulmana, poi ci sono cattolici e animisti, quelli cioè che credono tutto abbia anima, anche animali e piante. C’è perfetta armonia. Non c’è mai stato un colpo di Stato”.
Arriviamo allo stadio a Mbour dedicato alla prima donna deputata, Carolin Faye Diop. Grazie a Omar e all’associazione, fa gioiosa impressione vedere 250 bambini e bambine di 12 squadre pronti a giocare al camp organizzato proprio per loro. Questo è “Senegol”. “Ci sono più campi da calcio in Senegal che televisioni”, sottolinea Daffe, che viene anche premiato dalle squadre per il suo impegno nel Paese, all’ultima partita su sabbia che coinvolge italiani e senegalesi uniti.
Al campo di Mbour, intanto, vengono donate ai più piccoli magliette, scarpe da calcio, pantaloncini. Sono partiti in dieci dall’Italia, volontari che vogliono esserci: da Piacenza, l’imprenditore Nicolò Zambianchi, l’osteopata Martina Riga, l’educatrice Martina Trenchi, e poi lo studente della Luiss Gennaro Tortorelli, la sua fidanzata Claudia Dell’Acqua, medico a Torino, lo studente di Economia a Parma Lorenzo “Lollo” Piane, Giulia Panebianco, collega di Daffe in Lega Serie A, e Enrico Frigeri, di Sassuolo, Modena, che lavora nel commerciale nel settore ceramiche.
Ogni differenza viene cancellata in Senegal, appena entri alla “pouponniere”: 91 bambini, neonati o che hanno al più tre anni. La mamma è morta di parto, la mamma non poteva tenerli. Sono i bimbi sperduti della fiaba crudele di Peter Pan, quelli che indossano un pannolone al giorno e non ti lasciano indenne dall’incontro, fanno scricchiolare il cuore anche più armato. Chiedono solo una cosa: una carezza, abbraccio, contatto. La struttura, fondata da Michele Baron-Millet, vive unicamente di donazioni, volontariato. Noi altro non possiamo essere se non volontari di coccole, che però “scottano” appena finisci di dar loro la pappa, devi rientrare, e capisci che loro vogliono solo stare in braccio. Sentirsi riconosciuti, pelle a pelle. Nessuno dei dieci italiani esce dall’orfanotrofio senza calarsi gli occhiali da sole sugli occhi dopo aver pianto di nascosto. “Non hanno chiesto loro di nascere…”, dice Omar, la guida, che prima di risalire sul pullman guidato da Karim Samba chiede di poter dire una preghiera. Ce n’è bisogno, “Io da quando vengo qui ho imparato a provare ad essere di gomma, altrimenti non ne esci”, dice sottovoce Daffe.
La prossima tappa saranno le scuole: qui vengono consegnati zaini, diari, quaderni, un microscopio. “Chi ha cura di un bambino ha cura dei bambini di tutto il mondo”, sottolineano le insegnanti, tradotte dalla guida Filomena Sarr che legge in italiano Oriana Fallaci. Il preside dice che serve una visione del mondo, mentre sulle pareti delle case in strada le scritte a spray invitano a pregare per Bamba, un eroe qui che si oppose al colonialismo a costo di essere deportato: “Ma tornò sano e salvo anche dalla foresta, ha reso l’anima poi nel 1927”, spiega la guida. All’orfanotrofio c’è un’altra scritta: “Il bene genera bene”. Ci sarà da ricordarselo al ritorno in Italia, nell’altro deserto, pieno di gente.
IL REPORTAGE DI ELISA MALACALZA SU LIBERTÀ
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