Colombi (Uilpa). Riscrivere il Patto di Stabilità, redistribuire la ricchezza
26 Gennaio 2022 09:06
Le teorie economiche neoliberiste sono all’origine dei gravi problemi che da anni affliggono la Pubblica Amministrazione italiana. La quale è stata letteralmente saccheggiata in nome di regole finanziarie mai condivise con i cittadini, scritte non si sa dove, non si sa da chi e con l’unico fine di arricchire i privati nella speranza che creino posti di lavoro. La realtà è un’altra. Nel settore privato la disoccupazione, il precariato e i bassi salari la fanno da padroni. Nell’amministrazione pubblica abbiamo perso 500mila posti di lavoro in 15 anni, assistito a un invecchiamento demografico che non ha eguali nel mondo, ridotto la spesa di miliardi e miliardi di euro. Il risultato è che oggi il settore pubblico vive in uno stato di prostrazione e di degrado indegno del presente e del futuro del nostro Paese.
Nonostante questi fallimenti, resi drammaticamente evidenti dall’emergenza pandemica, ricette draconiane continuano a essere imposte da Bruxelles in nome di una crescita che i lavoratori non vedono. Per dare un’idea fin dove può arrivare l’imbroglio neoliberista basti pensare all’economista statunitense Robert Lucas. Il quale è arrivato a sostenere che la disoccupazione involontaria è un’invenzione e che durante le fasi di recessione i lavoratori si godono il tempo libero perché è un comportamento razionale. A questo signore è stato assegnato il Premio Nobel. Ed è a ideologi come Lucas che si ispira il Patto di stabilità.
L’architettura finanziaria su cui poggia il governo dell’Unione Europea, partorita dalle tecnocrazie di Bruxelles e Francoforte, è basata su regole inflessibili a cui tutti i popoli d’Europa sono sottomessi senza aver mai eletto un rappresentante che promettesse di imporle. Basta questo a rendere lecita la domanda se oggi abbia ancora senso continuare a perpetrare un tale disegno. Un disegno sensato solo per ricchi e potenti. Si tratta allora di stabilire se nel 2022 sia logico continuare a vincolare il destino dei popoli europei a banali indicatori percentuali ricavati da complicati calcoli attuariali di cui per giunta nessuno ha mai verificato l’esattezza.
C’è qualcosa di paradossale nel fatto che a porre oggi questo problema a livello istituzionale europeo siano proprio alcuni dei sacerdoti che per anni hanno difeso a qualunque costo le regole del Patto di stabilità e del Fiscal Compact. La Commissione Europea su sollecitazione di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, sta avviando al proprio interno una discussione sulla revisione della governance economica del Patto di stabilità. Verrebbe da dire: bentornati nel mondo reale.
Ma l’esperienza di decenni di austerità per lavoratori e pensionati in nome del rapporto deficit/PIL ci ha insegnato a non farci illusioni, almeno non per soluzioni a breve termine. Sinceramente non vorremmo che si trattasse di un’operazione di facciata che, al massimo, punti a diluire nel tempo gli effetti di nuove politiche di austerità necessarie per il rientro dei debiti pubblici di quasi tutti i Paesi europei. Debiti cresciuti a dismisura a causa della necessità di aumentare la spesa pubblica per fronteggiare la pandemia. E qui si comprende meglio la campagna della UIL, “Patto di stabilità? No, grazie”, sperando che sia seguita presto dalle altre parti sociali e da altri soggetti pubblici, sia istituzionali che privati.
Chiariamoci: ai lavoratori, ai pensionati, ai giovani senza lavoro, agli occupati che non arrivano a fine mese, alle donne discriminate, alle fasce della società rese deboli da decenni di neoliberismo, ai nuovi poveri che aumentano in Italia al ritmo di 500mila all’anno non interessano i tecnicismi per garantire la tenuta di un sistema politico-finanziario che quelle regole ha voluto e sempre difeso e alle quali ha legato la propria sopravvivenza. Noi partiamo da un altro presupposto. Che è radicalmente inconciliabile con i principi mercantilisti su cui si fondano quelle regole. Non si tratta di posticipare gli effetti del rientro del debito pubblico. Non si tratta di “allentare” il Patto di Stabilità per guadagnare un anno in più o due anni o cinque anni. Si tratta di abolire quelle regole e di riscriverle daccapo.
Non può esistere per i popoli europei un futuro basato su austerità e tagli della spesa sociale perché il valore prodotto dal lavoro delle persone deve servire per pagare gli interessi sul debito contratto con qualche mega-fondo finanziario privato con sede in qualche non meglio specificato paradiso fiscale. Chi l’ha inventata questa trappola? Chi ha mai chiesto se siamo d’accordo? Oggi, come genitori o persino come nonni dei cittadini di domani, chiediamo che la ricchezza prodotta in ciascuna nazione europea attraverso il lavoro dei suoi cittadini venga redistribuita fra coloro che la producono: lavoratori, cittadini, imprese.
Siamo tutti consapevoli della necessità di uniformare e migliorare a livello europeo le regole sui diritti sociali delle minoranze, sul contrasto al dumping sociale e contrattuale, la tutela della salute, la riduzione dei divari sociali e la protezione delle situazioni di fragilità. L’impegno dell’Europa su questi temi è giusto e nessuno di noi si sogna di chiedere un’inversione di marcia, semmai un’accelerazione.
Ma come lavoratore della Pubblica Amministrazione (e come me altri milioni di pubblici dipendenti) ho la chiara percezione del fatto che le buone intenzioni potranno essere concretamente realizzate solo attraverso l’azione dei servizi pubblici e se si persegue in modo convinto un piano di rilancio del pubblico a tutti i livelli: potenziamento delle strutture, digitalizzazione, revisione dei processi organizzativi, snellimento della burocrazia, investimento sulle competenze e sulla professionalità degli operatori, staffetta generazionale su vasta scala.
Parlare di cambiamento delle regole fiscali e finanziarie per la Pubblica Amministrazione non è uno slogan. È la scelta obbligata per la sopravvivenza di un sistema sociale che altrimenti rischia di essere definitivamente sacrificato sull’altare di politiche mercantiliste. Politiche che non rispondono a logiche di sviluppo equo e sostenibile, non favoriscono la diffusione di condizioni reali di benessere collettivo e non promuovono il superamento delle disuguaglianze. Finché avremo spazio e libertà di parola, non ci stancheremo di combattere questa battaglia.
Sandro Colombi, Segretario generale UIL Pubblica Amministrazione
Roma, 26 gennaio 2022
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