Imponderabile finale, la storia vera di una vittima della violenza e del (pre)giudizio
19 Settembre 2022 10:54
Quando si consuma una tragedia talmente grave da scuotere la coscienza collettiva, generalmente il racconto inizia dalla fine, dalla manifestazione visibile della stessa: bisogna trovare subito un colpevole, qualcuno contro cui puntare il dito. Gli avvenimenti precedenti, invece, tendono ad essere offuscati, fuorviati, a rimanere dietro le quinte e non essere presi in considerazione, con il rischio che la realtà dei fatti risulti distorta. Il pericolo si fa ancora più concreto nel momento in cui ciò avviene all’interno di una comunità omertosa e perbenista, nella quale preservare un’apparenza irreprensibile è più importante della salvaguardia della vittima.
“Anche se il racconto ruota intorno a una tragedia, i suoi personaggi, come avrete modo di comprendere, si muovono nello spazio di una grande commedia.”
(Dall’incipit del romanzo, p.13)
Una tragedia, certo, ma talmente grottesca nelle sue implicazioni da apparire surreale, in cui i personaggi che gravitano attorno ai fatti la commentano dall’esterno senza comprenderla realmente.
Protagonista della vicenda narrata nel romanzo-denuncia di Maria Naggia, Imponderabile Finale, pubblicato dal Gruppo Albatros il Filo, è una donna tanto invisibile da non avere un nome, ma soltanto un soprannome volto a sottolineare un suo handicap fisico: la guercia. Sin da quando era bambina, a sussurrarlo erano soprattutto “le brave persone che frequentano assiduamente la chiesa”, come le definisce l’autrice, ovvero i soggetti che si mostrano apparentemente più irreprensibili. In seguito all’avvenimento scatenante, che potremmo definire come la deflagrazione di una bomba a lungo dormiente, la donna, a causa di un drammatico ribaltamento dei ruoli, si trova isolata, meticolosamente evitata dai vicini e da coloro i quali a lungo avevano finto nei suoi confronti una parvenza di amicizia. L’obiettivo degli abitanti del paese è di dimenticare quanto prima la vicenda, a costo di fornire un giudizio sommario e parziale, ma quando le speranze sembrano essersi esaurite una giornalista decide di riprendere in mano il caso, prima che venga inghiottito dall’oblio.
“La giornalista desidera capire: è stata anche lei spettatrice di una storia di violenza, quindi vuole indagare sul come si arrivi al punto di non ritorno, dove non si può più scegliere”, spiega Maria Naggia alle telecamere di #Librindiretta, il talk dedicato ai libri in onda su Conoscere TV. La condivisione del dolore, la desolazione di aver vissuto un’esperienza simile, crea infatti un legame tra le donne e riduce la diffidenza della protagonista, che piano piano si concede di tornare indietro nel tempo, alle sofferenze che la vita le ha riservato. Inadeguatezza, scarsa autostima, crisi d’ansia e disturbi alimentari, una fame di affetto e di attenzione mai realmente appagate e corrisposte.
“Nei casi di violenza, inizialmente l’uomo sembra il principe azzurro, quindi la donna si sente tranquilla e fortunata” continua l’autrice durante l’intervista in diretta streaming “Magari ne parla in giro e riceve il consenso della società, lui viene considerato a tutti gli effetti l’uomo ideale. Poi se le cose cambiano è più difficile parlarne, perché tutti gli altri continuano a vederlo perfetto: è in quel momento che la vittima inizia a sentirsi sbagliata e colpevole”.
Il tema delicato della violenza di genere, nonostante i passi avanti finora raggiunti è ancora oggi tra le urgenze sociali del nostro tempo, non soltanto per quanto riguarda la sfera fisica e sessuale, ma anche nelle sue manifestazioni più subdole, psicologiche. Basti pensare che nel 2020, nel periodo pandemico, secondo i dati ISTAT le richieste di aiuto al numero verde 1522 per la violenza e lo stalking sono aumentate del +119% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I dati sono preoccupanti, ancora di più se si considera la percentuale di donne che sceglie di non denunciare per proteggere la propria incolumità, le persone care, i figli, oppure, nei casi più drammatici, a causa del mancato ascolto da parte della propria rete sociale. Il victim-blaming, ovvero la colpevolizzazione della vittima, finisce infatti per svalutare la percezione di chi subisce violenza, tenta di ricondurre il fenomeno alla semplice intemperanza del partner o a una mancanza della parte lesa, considerata incapace di rientrare nello standard e nelle aspettative della società. Il carnefice, in un grottesco gioco delle parti, viene quindi assolto, almeno agli occhi di chi non conosce il reale svolgimento dei fatti. La protagonista del romanzo si trova a vivere una situazione simile: la stessa dirimpettaia definisce il marito della donna come una bravissima persona, accusandola di essere la “strampalata” della coppia, pur avendo assistito in prima persona, precedentemente, alla furia dell’uomo.
A scandire i tempi della narrazione è l’appuntamento domenicale a messa, visto dalla protagonista come l’immancabile punto di ritrovo degli alfieri del buon pensiero, lì dove l’assenza dell’uno o dell’altro membro della comunità viene vissuto come uno scandalo, da commentare rigorosamente durante la funzione stessa. Mentre narra alla giornalista la sua versione della vicenda, infatti, la donna non perde occasione di svelare le ipocrisie della comunità, la maschera indossata da quei personaggi – tra tutti menzioniamo il vicesindaco del paese – che dovrebbero preservare il benessere dei cittadini, ma che altro non fanno che sfruttare i loro privilegi per scopi personali. Gli insospettabili, i primi della fila, che nella sfera privata si muovono verso lidi ben lontani da quelli della buona morale.
Lo stile narrativo scelto da Maria Naggia enfatizza con precisione chirurgica la rabbia impotente della protagonista, l’unica che sembra saper guardare la realtà oltre il filtro dell’apparenza. Fin dalle prime pagine il lessico è duro, nulla viene edulcorato, l’autrice non teme di scandalizzare il lettore con le sue parole perché sono i fatti in sé, in realtà, a doverlo fare. L’ironia crescente, sempre più amara, ben si coniuga con la cornice narrativa del racconto, alla quale veniamo riportati dagli interventi della giornalista o dalle interruzioni presenti in un ricordo che sta per farsi troppo doloroso per essere sostenuto.
Da lettori ci troviamo di fronte a personaggi tridimensionali, riconoscibili all’interno di una realtà sociale fondata sull’attualità. In questo spettacolo tragicomico, abbiamo l’occasione di scrutare da vicino gli attori e svelare il vuoto che alberga sotto la maschera che indossano. La loro essenza è rattrappita, prosciugata dalla malvagità e dall’indifferenza che portano in seno, un meccanismo ormai irreversibile di disumanizzazione. Fa da contrasto, invece, la forte umanità della protagonista, narrata senza nulla escludere o giustificare. Il gesto da lei compiuto sarà giudicato in senso assoluto o contestualizzato? Verrà considerato come l’estrema necessità di salvaguardare ciò che di lei è rimasto o soltanto come l’efferata stravaganza di una donna ai margini della società? Sono proprio le domande il fulcro del ragionamento della protagonista, alle quali però non è possibile trovare una risposta.
Certo è che questo affollarsi di domande sia in grado di colpire non soltanto la sensibilità delle donne, ma anche e soprattutto quella dei lettori uomini, parte finora descritta come nemica e avversa, ma che al contrario ha un ruolo fondamentale per debellare la piaga della violenza. Attraverso l’ascolto e l’immedesimazione suggeriti da Imponderabile Finale è possibile immaginare una conclusione diversa, dettata da condivisione e supporto e mai più dalla paura.
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