“Senza preavviso”, la struggente elaborazione di un lutto che non si risparmia “un grammo di dolore”
14 Febbraio 2023 14:46
La morte è la condizione ineluttabile della vita: dal momento stesso in cui ci si accorge di essere vivi si impara a conoscerla, e se da una parte spaventa e suscita orrore, dall’altra non si può che accettarla, lasciarsi accompagnare mentre rimane sempre un passo indietro, ombra senza la quale sarebbe vano l’incedere dell’uomo. Avviene, però, che il passo della morte possa farsi più lungo in maniera inconsulta, quando nessuno se lo aspetta, e che cogliendoci di sorpresa ci sgambetti e sorpassi, scaraventandoci nell’oblio. Quando la morte tocca una persona cara, la cui anima è legata a doppio nodo con la propria, non rimane che il silenzio: il suono sordo dell’incredulità, del vuoto abissale che annebbia e disorienta, di un saluto mai offerto e che resterà per sempre incompiuto. È in questo silenzio, in questo senso di vertigine che si apre l’opera di Samaritana Rattazzi, Senza preavviso (Gruppo Albatros il Filo, 2023), dove con precisione scientifica e allo stesso tempo con struggente affezione racconta il suo personale percorso di elaborazione del lutto in seguito alla scomparsa dell’amatissimo marito Giancarlo.
È il 2 novembre del 2020, nel pieno della seconda ondata della pandemia da Covid-19, gli ospedali sono inavvicinabili per paura del contagio. Giancarlo non riesce a liberarsi dall’affanno e la recente diagnosi di una forma di leucemia, la Policitemia Vera – ottenuta soltanto tre settimane prima – impone una certa prudenza, pur risultando sotto controllo e non destando particolari allarmismi. Visitato dai medici e immediatamente ricoverato d’urgenza al Pronto Soccorso del Fatebenefratelli di Roma, passeranno soltanto cinque minuti prima che le porte si riaprano sulla sala d’aspetto, dove Samaritana Rattazzi riceverà la tragica notizia: suo marito non ce l’ha fatta, non c’è stato nulla da fare.
Il processo di elaborazione del lutto, per quanto spesso lo si consideri come un passaggio successivo, che ha bisogno di tempo per essere messo in moto, inizia per lei – forse inconsapevolmente – nel momento stesso in cui le viene offerta la possibilità di vedere suo marito: non si ritrae, non nega la morte e nemmeno il dolore, prova anzi insieme allo sgomento un tenero sollievo nel vederne il volto disteso, che sembra indicare che non abbia sofferto. Al contempo qualcosa si rompe dentro di lei e nulla, da quel momento in poi, potrà più essere come prima.
La razionale compostezza che emerge dalla narrazione di Rattazzi è permeata di un’umanità vibrante di spiccata sensibilità: sono molteplici i tentativi di decostruire l’accaduto per trovarvi un senso, febbrile la ricerca a ritroso delle avvisaglie che nei giorni precedenti avrebbero potuto annunciare la catastrofe. È forte soprattutto il senso di desolata e gelida solitudine, che si insedia con destrezza sotto la pelle del lettore nell’incontro con queste pagine. Dopotutto la morte, nonostante i tentativi di scongiurarla o di tenerla a distanza, è a noi connaturata e ci appartiene esattamente come la gioia, come la paura, o come l’amore. Forse è proprio in virtù di ciò che la morte ci risulta oggi più che mai inaccettabile, in un tempo che ci ha disabituati alla rinuncia e alla perdita, che non può e non vuole concepire il limite e che ci rende bulimici di un godimento immediato, ininterrotto e quanto più effimero. Il percorso dell’autrice si muove esattamente nella direzione opposta: cerca la concretezza, non si arrende di fronte all’assenza e la riempie, al contrario, con la presenza, con l’inamovibile diniego rivolto a chiunque le avesse proposto di cambiare città, quartiere, casa, arredamento, perlomeno il materasso del letto. I vestiti, le fotografie e i piccoli dettagli dei quali si è composta una quotidianità durata ventisei anni provocano certamente dolore, rappresentano il memoriale dell’assenza, ma sono soprattutto il simbolo di una presenza forte, di un amore che non può e non deve essere scansato o archiviato a causa del distacco terreno.
Mantenere il legame e non lasciare che la presenza sfugga tra le dita, sono i cardini attorno ai quali ruota la riflessione dell’opera: la tenera rievocazione dei momenti vissuti insieme al tempo stesso alimenta e lenisce la sofferenza, perché rende più duro il pensiero di ciò che non sarà più, ma permette di stringere con forza ciò che è stato e ciò che di bello ha donato. “Si faceva tutto insieme io e te, salvo il lavoro. Cucinavamo insieme, guardavamo la televisione insieme, ci parlavamo in ogni momento, consultandoci su ogni argomento. E quando eravamo in barca, da soli, il momento migliore, le confessioni più belle, le manifestazioni di affetto più tenere. La crema sulla schiena, la mia, perché tu non ne avevi bisogno: eri nero come un tizzo, fin da giugno. Tirare su il tendalino insieme, dopo aver gettato l’àncora in una baia, vestirsi per lo snorkeling, le spalle sempre un punto delicato quando si indossa la muta, la preparazione del fucile, io che ti aspetto in acqua, dopo aver controllato la posizione dell’àncora. Un’ora in mare e poi, una volta asciugati al sole, la meritata merenda. Caprice des Dieux, con focaccia e noci e Berlucchi rosé, la tua preferita e anche la mia. Quanto l’abbiamo amata la nostra Santa Maria, il gozzo Aprea che avevi attrezzato per la pesca all’Argentario, e dove passavi le giornate intere, anche da solo, quando io non venivo con te perché andavo in spiaggia con le bambine. […] La passione per la pesca è stata una costante del nostro matrimonio, del nostro rapporto, della nostra gioia di vivere. Ed è una emozione che solo i pescatori veri conoscono e cercano all’infinito, in ogni mare del mondo”. Nelle brevi parole con le quali l’autrice racconta un momento così intimo e quotidiano si percepisce tutta la condivisione di un amore profondo e maturo, nel quale le abitudini e le passioni si avvicendano in un incastro perfetto, armonico. Nella limpida autenticità del racconto non viene omessa nessuna delle difficoltà che il matrimonio porta con sé, si parla apertamente delle due separazioni e dei dubbi, del rancore e del perdono donato e ottenuto, in nome di un amore che è stato sempre messo al primo posto.
“Senza preavviso” ha il coraggio di percorrere la strada meno battuta di un dolore vissuto senza risparmiarsi nulla, “non un grammo di dolore” come afferma l’autrice. Per quanto ci si possa interrogare, non esiste una risposta alle domande che la morte porta con sé, ci sarà sempre una porzione di smarrimento e rimpianto da dover inghiottire ogni giorno e la ferita che la perdita infligge in chi resta non potrà mai cicatrizzarsi, non completamente. La sofferenza, per quanto si desideri offuscarla, non può e non deve essere taciuta, per rispetto a sé stessi e alla persona scomparsa che tanto si è amata: di questo concetto Samaritana Rattazzi si fa portavoce pagina dopo pagina. Nel tenere vivo il ricordo, nell’ascolto delle proprie emozioni e nella ricerca quotidiana di quei piccoli segnali che ci permettono di sentire vicini i nostri cari – un dettaglio, un profumo, una parola ricevuta in sogno – è possibile scavare dentro il dolore e imparare a viverci affianco, tornare a guardare in avanti, assecondando il proprio destino: perché se è vero che la morte è ineluttabile, che ci è connaturata e ci appartiene, ancora di più ci appartengono la vita, il tempo, la speranza.
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