La foresta Amazzonica non è più il polmone della Terra

23 Luglio 2021 05:00

Nell’articolo:

  • La foresta Amazzonica emette più CO2 di quella che assorbe
  • La superficie verde è andata riducendosi negli anni a causa del deforestamento e degli incendi
  • I governi sudamericani forniscono smartphone agli indigeni per avvisarli riguardo attività sospette nelle vicinanze

Una volta era il polmone della Terra, il simbolo della capacità del nostro pianeta di rigenerarsi e curare le proprie ferite. Oggi la storia potrebbe essere cambiata. Secondo diversi studi la Foresta Amazzonica, in preda ad incendi e deforestazione, starebbe emettendo più anidride carbonica di quanta non riesca ad assorbirne. I governi degli Stati colpiti stanno cercando nuove soluzioni per combattere questo fenomeno, tra cui consegnare smartphone alle popolazioni indigene. È tutto vero, ma per capirlo bisogna procedere passo dopo passo.

L’Amazzonia non è più il polmone della Terra

Contrordine, la foresta Amazzonica non è più il polmone del pianeta. Perlomeno non lo sono più alcune delle sue parti. A dirlo è uno studio pubblicato su Nature lo scorso maggio, nel quale si legge che la foresta pluviale in Brasile tra il 2010 e il 2019 ha rilasciato nell’atmosfera il 20% di anidride carbonica in più rispetto a quella che è riuscita ad assorbire. Il polmone del pianeta Terra si sta trasformando in una fonte di carbonio, e questo è un problema. Non bisogna dimenticare che le analisi di scenario di lungo termine sullo stato di salute dell’atmosfera terrestre di basano, tra l’altro,  sul fatto che la foresta amazzonica prosegua nel suo lavoro di “purificazione” dell’aria. Nel decennio 2010-2019, in Brasile, il polmone verde (oppure ex polmone) avrebbe emesso in termini assoluti 16,6 miliardi di tonnellate di CO2 a fronte di 13,9 miliardi assorbiti.

La situazione cambia a seconda delle zone

“Nella parte orientale dell’Amazzonia, che è oggetto di deforestazione all’incirca per il 30%, viene emessa una quantità di anidride carbonica dieci volte superiore all’ovest, dove solo l’11% è oggetto di deforestazione”. Queste le parole di Luciana Gatti, una delle ricercatrici dell’Istituto nazionale brasiliano di ricerche spaziali (Inpe). Gli incendi pongono un grave problema. “La notizia davvero grave è che la foresta, bruciando, emette circa tre volte più anidride carbonica di quella che assorbe”.

Ci penseranno gli indigeni

Perché inventarsi processi astrusi o dispiegare forze dell’ordine in un’area di milioni di chilometri quadrati quando a presidiare la Foresta Amazzonica ci sono già popolazioni indigene che la conoscono a menadito? È quello che devono essersi chiesti anche i governi di Brasile, Perù e Colombia. Questi ultimi hanno infatti deciso di implementare un nuovo approccio alla preservazione delle foreste. Dando degli smartphone agli indigeni. Esattamente. L’intento è quello di creare un canale di comunicazione con le popolazioni locali, in modo tale da avvisarle per tempo riguardo alle minacce nelle aree verdi limitrofe. L’esperimento funziona così. Alcuni membri di ciascuna comunità scelta vengono dotati di un telefono di ultima generazione, attraverso i quali sono contattati dalle autorità, che a loro volta tengono sotto controllo le informazioni e le immagini provenienti dal satellite. Quando le autorità notano qualche anomalia e ritengono vi sia pericolo di una attività di deforestazione nelle vicinanze, caricano i dati su chiavette Usb che giungono ai villaggi designati tramite vere e proprie canoe che percorrono su e giù il Rio delle Amazzoni. Una volta giunte a destinazione, i dati contenuti nelle chiavette vengono trasferiti sui telefoni tramite specifiche applicazioni, disegnate appositamente per guidare gli indigeni alle zone ritenute a rischio e procedere di conseguenza.

Un esperimento riuscito a metà

Secondo uno studio pubblicato da ricercatori universitari indipendenti di New York e Washington, che hanno seguito da vicino l’attività di 76 villaggi remoti nell’Amazzonia peruviana (36 partecipanti al programma pilota e 37 come gruppo di controllo), l’uso della tecnologia ha aiutato a ridurre la deforestazione, ma le variabili in campo sono diverse e i benefici sono limitati. Nel primo anno del programma lo studio stima che grazie alla tecnologia il “gruppo smartphone” avrebbe salvato in media 8,4 ettari di foresta. Nel secondo anno la riduzione si sarebbe limitata a 3,3 ettari in media. Si tratta di aree salvate che nel primo anno costituiscono “il 52% della media di area forestale persa nelle comunità assegnate alla salvaguardia” mentre alla fine dello studio, dopo due anni, scendono al 37% rispetto al gruppo di controllo (che non ha gli smartphone). Il cambiamento nei metodi però rappresenterebbe, come anticipato, solo una delle variabili in gioco. Spiegano gli studiosi: “In media, le comunità sono riuscite ad evitare la perdita di  8,8 ettari di foresta ciascuna nel primo anno. Ma le comunità che erano maggiormente minacciate, quelle che hanno avuto fenomeni di deforestazione più ampi nel passato, erano quelle che mettevano più impegno e riducevano la deforestazione più delle altre”. Insomma deve esserci anche una propensione innata e una esperienza di episodi di deforestazione per stimolare l’intervento delle popolazioni locali. Soprattutto per quanto riguarda l’efficacia degli interventi che, sebbene possa essere aiutata dalla tecnologia, resta legata alla tradizione e alla vita quotidiana degli indigeni.

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