Materie prime critiche: l’Italia deve riaprire le miniere
per slegarsi dalla Cina

26 Giugno 2023 05:00

Ingegneri e minatori.
Super computer e piccozze.
Intelligenza artificiale e badili.
Di questo ha bisogno l’Italia, al pari di tutta l’Unione europea, se nei prossimi anni vuole vincere la sfida della transizione ecologica e tecnologica.
Per capirlo, ci sono alcuni semplici dati da cui partire.
Primo: pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, batterie per le auto elettriche, computer, smartphone e schermi tv rappresentano elementi centrali del nostro presente e del futuro di tutti noi.
Due: per realizzarli servono le cosiddette materie prime critiche (in primis le “terre rare”), che l’Europa e l’Italia sono costrette a importare per la loro quasi totalità, in particolare dalla Cina. che ha raggiunto ormai il 65% del totale nella Ue. Arrivano da Pechino il 97% del magnesio consumato in Europa e il 100% delle terre rare usate per i magneti permanenti. Per il cobalto globale dipendiamo dal Congo (ma è raffinato per la maggior parte in Cina), mentre arriva dal Sudafrica il 71% del platino e dalla Turchia il 98% del borato.
Una situazione che mette i Paesi dell’Unione europea in una posizione di debolezza competitiva e strategica. Purtroppo, l’Italia è quella messa peggio: secondo un recente report di Ambrosetti, il 38% del Pil nazionale dipende dall’impiego di materie prime critiche (Crm) che non possediamo e dobbiamo dunque importare da Paesi extracomunitari.
Con la pubblicazione del Critical raw materials act, la Ue ha così aggiornato l’elenco ufficiale delle materie prime critiche (salite a 34) e stabilito alcuni importanti paletti da raggiungere entro il 2030: non si potrà importare più del 65% di un elemento da un singolo Paese (leggasi Cina), almeno il 10% delle materie prime critiche usate dovrà essere estratto da miniere inEuropa, il 40% del consumo annuo dovrà arrivare attività trasformazione e il 15% dal riciclo.
I problemi per l’Italia sono due. Il nostro Paese e il suo sistema produttivo erano tra quelli che hanno scelto in passato di importare materie prime anziché estrarle, perché molto più economico. Oggi quindi si rende necessario riaprire le miniere. Secondo l’Ispra nel sottosuolo italiano ci sono almeno 15 delle 34 materie prime critiche necessarie per la transizione energetica. E non mancano certo i siti da cui estrarle: sarebbero almeno tremila, concentrati in particolare in Lazio, Liguria, Toscana, Campania, Sardegna, Piemonte, Lombardia e nell’arco alpino. Litio, cobalto, barite, berillio, nichel e tungsteno, ma anche rame e zinco. Cominciare a cercarli (in alcuni casi ricominciare a farlo) apre ovviamente anche dibattiti ambientali, soprattutto in quei siti che si trovano in aree protette o in paradisi naturalistici.
C’è poi un secondo tema: se l’Italia raggiungesse il target europeo del 65% di tasso di riciclo dei Rifiuti elettrici ed elettronici (Raee), oggi fermo al 34%, si potrebbero recuperare circa 17mila tonnellate di Crm, un quantitativo pari al 25% dell’import dalla Cina.
Delle 34 materie prime critiche ufficiali, 29 sono indispensabili per l’industria energetica, 28 per quella aerospaziale, 24 per l’elettronica, 23 per l’automotive e 19 per le rinnovabili. Continuare a dipendere dall’estero, peraltro da Paesi non “amici”, esporrebbe l’Italia e l’Europa ai rischi già corsi con lo stop alle forniture del gas russo.
Anche perché il ruolo di leadership della Cina sulle materie prime critiche non si basa solamente sulla produzione domestica e sull’estrazione, ma riveste una posizione fondamentale anche nella raffinazione dei metalli e sugli investimenti in giacimenti minerari in Paesi terzi.
Senza dimenticare il potenziale rischio dello stop ai microchip da Taiwan in caso di conflitto proprio con la Cina.

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