Vittorio Baracchi, una vita da portiere: “Io, testimone di un calcio che non c’è più”

11 Luglio 2022 05:10

Quella tra il piacentino Vittorio Baracchi e i guantoni da portiere è una storia d’amore lunga quasi un secolo. Dalle partitelle con gli amici al campo Daturi, con i pali realizzati stendendo a terra giacche e magliette, al leggendario stadio di Barriera Genova, dove (poco dopo la Guerra, nel 1947) ha difeso i pali del Piacenza Calcio. Una lunga carriera, da giocatore prima e allenatore poi, che l’ha visto attraversare oltre ottant’anni di calcio piacentino, tra curiosi aneddoti e preziosi ricordi.

Il giorno del suo novantaduesimo compleanno, questo eterno giovanotto è venuto a farci visita a Libertà, accompagnato dal figlio Giuseppe: i suoi occhi si illuminano nel raccontare di sfide su campi innevati e fangosi, dribbling funambolici, pubblico a bordocampo e pesanti palloni di cuoio. E’ il  suo calcio, tanto diverso da quello di oggi eppure così simile nel regalare emozioni in grado – anche a distanza di anni – di far battere il cuore.

“Ho sempre giocato in porta – spiega – anche da bambino. Mi ha sempre affascinato la vista completa del campo che un estremo difensore può godere rimanendo tra i pali. Ricordo che a Ottone, dove sono nato il 7 luglio del 1930, nel giorno di San Bartolomeo organizzavamo tornei meravigliosi ai quali spesso prendevano parte anche giocatori affermati di squadre in Serie A. Ad uno di questi si presentò un giorno Vittorio Sardelli, storico terzino sinistro del Genoa a cavallo tra gli anni ’40 e ’50. Tirò in porta diverse volte e parai tutto: al termine della partita venne da me e disse “tu diventerai un grande portiere”. Avevo 14 o 15 anni e lì capii che potevo fare strada. Infatti, non molto tempo dopo, dalla Turris approdai ai Boys del Piacenza Calcio. Il ricordo più bello? Naturalmente l’esordio in prima squadra. Un giorno, nella stagione 1948/1949, ricevetti la convocazione come secondo portiere, alle spalle dell’esperto Giovanni Casale. Giocavamo contro il Rovigo e doveva essere lui il titolare: per questo la sera prima della partita andai a letto sereno. Il giorno seguente mi ero già accomodato in panchina quando mister Barbieri mi fece una bella sorpresa: “Baracchi in campo dal primo minuto. Vatti a scaldare”. Quasi mi venne un colpo. Vincemmo 4-0 e mantenni la porta inviolata. Avevo 18 anni”.

Baracchi rimase a fare la guardia alla porta biancorossa per le successive due stagioni. Dopodiché, a causa anche degli impegni lavorativi nel negozio di generi alimentari dei genitori in via Poggiali, seguirono le esperienze in Promozione nel Castell’Arquato, Rivergaro e Pro Piacenza. Reattivo, combattivo e di sicura affidabilità, Baracchi continuò a giocare per parecchi anni, dedicandosi poi all’attività di tecnico, sempre nel Piacentino. “Al corso da allenatore mi ritrovai accanto Silvio Piola. Una bellissima esperienza. Tra le tante, ho allenato anche le giovanili del Piacenza. Qui notai un certo Pietro Visconti (attuale direttore di Libertà, ndc), allora giovanissimo. Lo segnalai subito, aveva talento e una tecnica davvero sopraffina. Un ambiente, quello del calcio, che mi ha sempre dato tanto, specialmente in fatto di amicizie: dal “Cip” Luigi Tadini al grande Sandro Puppo. Ricordo che al Piacenza venne esonerato dopo poche giornate, un grave errore dato che successivamente girò il mondo allenando con successo anche il Barcellona e la Nazionale della Turchia. Un grande mister ma soprattutto un grande uomo”.

Per un appassionato ascoltare Baracchi raccontare le sue storie è puro godimento. Ma il tempo scorre ed ecco quindi sorgere spontanea la domanda: quali le differenze più grandi tra il calcio dei suoi tempi e quello moderno? “E’ tutto un altro mondo – osserva Baracchi -. A cominciare dal mio ruolo. I portieri di oggi, oltre ad essere molto più alti rispetto agli standard dei miei tempi, con i piedi sono davvero dei fenomeni. Quando giocavo io il diktat degli allenatori era passare la palla al centro-mediano, solitamente il più talentuoso della rosa, oppure calciare la palla il più lontano possibile. Adesso, invece, spesso e volentieri anche i portieri si ritrovano ad impostare il gioco, sono diventati dei registi aggiunti. Per quanto riguarda il calcio in generale, è estremamente più veloce rispetto ai miei tempi. Tanti passaggi ma pochi dribbling, meno fantasia rispetto a una volta. Rimane però lo sport più bello del mondo e quando riesco lo seguo ancora con piacere”.

IL SERVIZIO DI MARCELLO TASSI

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