A tutti piacciono i burattini: “Pinocchio” di Guillermo Del Toro
Non so dirvi quanto sono stanca di sentire la storia di Pinocchio ma ho deciso di dare una chance a Guillermo Del Toro, e ho fatto bene. Anche se tra le mille mila trasposizioni tra film e animazione tra quelle recenti la mia preferita rimane quella diretta da Enzo D’Alò con le immagini di Lorenzo Mattotti, la visione del regista messicano incentrata come sempre sulla celebrazione del diverso del regista messicano ancora una volta mi ha conquistato.
La rivisitazione della favola di Collodi di Del Toro (disponibile su Netflix), costruita con uno stop motion stre-pi-to-so da un nume tutelare come Mark Gustafson, è ambientata nel ventennio fascista, dove un Geppetto alcolizzato straziato dal dolore per la perdita di Carlo, l’amato figlio di dieci anni, costruisce un burattino per cercare di alleviare la sua pena. Compare anche il Duce che assiste allo spettacolo di burattini del perfido Conte Volpe (mescolato con Mangiafuoco), e Lucignolo è figlio del podestà fascista che lo vuole virile come lui tanto da farlo partecipare, insieme a Pinocchio, alle esercitazioni dei Balilla per la guerra imminente.
Il burattino/mostro/bambino sfida ogni simbolo con le sue domande ingenui e acute, si paragona al crocifisso incompiuto nella chiesa del paese, ridicolizza Mussolini e il Podestà, vuole amore e regala amore, in un film struggente, magico e divertente e allo stesso tempo cupo e ossessivo: Geppetto crea Pinocchio come il dottor Frankenstein crea il suo mostro, Pinocchio è non finito, ragnesco, e quando muore finisce in un oltretomba popolato da conigli-scheletro che sembrano usciti dalla mano di Harry Hausen e da una sfinge senza occhi, sorella della non-fata turchina che dona al burattino la vita.
Un film che parla di vita e di morte, una storia di perdite, lutto, dolore, di scontri tra genitori e figli, di fardelli e sofferenza e che porta a un lieto fine che ha il coraggio di guardare il futuro, il tempo che passa, e quello che sarà.
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