Addio a Shane MacGowan, la voce dell’Irlanda ribelle e densa di poesia
Shane MacGowan ha salutato questo mondo. E’ stato il cantore delle atmosfere nordiche e delle carole tradizionali irlandesi. Possedeva un cuore punk, ancor prima che la musica, e avrebbe potuto essere il protagonista di un film di Ken Loach o il compagno di bevute e di poesia di Jack Kerouac, se “On the road” fosse partito dal Kent e non da San Francisco.
Musicalmente, MacGowan è stato un pioniere. In particolare, con la band The Pogues ha cucito la melodia celtica alla dissacrazione tonale. Scriverlo, ancora oggi, sembra un ossimoro, e invece il risultato è stato pura poesia.
Shane, scomparso a 65 anni dopo lunga malattia, era un “looser” nella vita vera, lo stesso “looser” che raccontava nella sue canzoni, senza necessariamente essere autobiografico. Perché MacGowan cantava il mondo che aveva sempre conosciuto, frequentato e amato. Un mondo antiborghese, fatto di albe gelide e suoni di fisarmonica, brughiere contadine e balli di gruppo nei giorni di festa.
Con i Pogues, che aveva fondato nel 1982 a King’s Cross (inizialmente con un altro nome) dopo un’esperienza nel gruppo The Nips, creò una fusione di ritmi all’inseguimento di testi connotati socialmente e politicamente. Fu così che la band divenne il riferimento dei giovani immigrati dalla Repubblica a Londra, anti-Thatcher e anti-censura, negli anni cruenti del conflitto nordirlandese dei Troubles. Non a caso lo si ricorda anche per una canzone di denuncia, “Streets of Sorrow/Birmingham Six” del 1988, su uno dei più clamorosi errori giudiziari nella storia del Regno Unito: il caso dei “Sei di Birmingham”, accusati ingiustamente di aver compiuto un duplice attentato dell’Ira con esplosivi in due pub della città inglese nel 1974 (21 le vittime). Il brano venne a suo tempo bandito dalle radio britanniche per le critiche rivolte a Londra e sarà solo nel 1993 che il regista Jim Sheridan riuscirà a girare il film “Nel nome del padre”, con Daniel Day Lewis e Postlethwaite, basato sull’autobiografia dell’attivista britannico Gerard Patrick Conlon, ex membro dei “Guildford Four”, quattro ragazzi incarcerati ingiustamente con la falsa accusa di essere terroristi appartenenti all’Ira.
E’ in questo scenario, che la musica di Shane MacGowan e dei Pogues giunge al cuore dei giovani irlandesi dell’epoca e parla al popolo dicendo quello che tutti sanno ma che è pericoloso dire, anche in forma di canzone. Ed è per questo motivo che, alla notizia della sua morte, il presidente dell’Irlanda Michael Higgins gli ha reso omaggio ricordando che « le sue parole hanno avvicinato gli irlandesi di tutto il mondo alla loro cultura e alla loro storia, racchiudendo così tante emozioni nel modo più poetico».
MacGowan coltivava l’amicizia con alcuni illustri colleghi musicisti, e tra questi Nick Cave e Bono Vox degli U2. Un’amicizia particolare fu quella con la cantante dublinese Sinéad O’Connor, scomparsa nel luglio scorso: insieme avevano interpretato una versione del singolo “Haunted” dei Pogues nel 1995. La cantante raccontò di averlo denunciato nel 2000 alla polizia nel tentativo di allontanarlo dalla droga. Lui non gradì l’intromissione e i conseguenti problemi legali, ma poi i due si riavvicinarono. Dunque, con i tre amici e con Glen Hansard prese parte al grande evento del 2018 organizzato alla National Concert Hall di Dublino per celebrare i suoi 60 anni in una memorabile esibizione di celebrità della musica rock e pop irlandese. E pensare che da adolescente MacGowan pensò di unirsi al sacerdozio, ma poi scoprì il punk. « Ero felice durante il punk. Incredibilmente felice – ha spiegato a Bono -. Tu lo chiami caos. Io non lo considero un caos. Lo considero una vita naturale ».
Shane aveva anche un lato-ombra: iniziò a bere da bambino quando la sua famiglia gli dava la Guinness per aiutarlo a dormire e ha sofferto degli effetti dell’abuso di droga e alcol per quasi tutta la vita. Eppure pochi altri avrebbero potuto scri-vere e cantare, con tenerezza e in quel modo anticonvenzionale difficilmente inquadrabile, quella che è universalmente considerata la più bella canzone di Natale: “Fairytale of New York”, in duo con Kirsty MacColl (originariamente doveva esserci la bassista dei Pogues Cait O’Riordan, che abbandonò il gruppo per andarsi a sposare con Elvis Costello). Una canzone musicalmente splendida, i cui protagonisti sono i “looser” che la borghesia amava scansare, chiamandoli «froci» e «prostitute». L’aspetto curioso è che la BBC censurerà il brano, pubblicato nel 1987 dai Pogues, nel 2007, coprendo certe parole con i suoni, considerandole politicamente scorrette. La censura fece arrabbiare Shane.
I Pogues dopo il grande successo del brano registrarono altri dischi, ma la distanza tra i musicisti e MacGowan, sempre meno affidabile per i suoi problemi con l’alcol, diventava sempre più grande, finché questi ha lasciato il gruppo nel 1991. A un certo punto, alla voce gli subentrerà persino Joe Strummer dei Clash, ma dopo altre registrazioni e scombussolamenti interni, è chiaro che senza il loro leader originairio i Pogues non hanno più la stessa forza primaria. Si scioglieranno nel 1996. Alle loro spalle, c’è almeno un capolavoro assoluto: “If I Should Fall from Grace with God” (1988). «Verso la fine, odiavo ogni secondo vissuto nella band – disse MacGowan in un’intervista del 1997 -. Si erano allontanati così tanto da quello che stavamo facendo in primo luogo. Non mi piaceva più quello che suonavamo. Mi sono rifiutato di sottomettermi e diventare professionista. Mi interessavano solo la verità e la poesia del fare musica».
Lasciati i Pogues, Shane si trasferì dalla Thailandia a Tipperary e formò la band Shane MacGowan and the Popes, che registrò due album in studio. Si sarebbe poi unito alla reunion completa dei Pogues nel 2001, che durò fino al 2014.
Negli ultimi anni, la salute è sempre stata cagionevole: MacGowan utilizzava una sedia a rotelle a seguito di una caduta che gli aveva fratturato il bacino e successive altre cadute gli avevano danneggiato le ginocchia. «Non ero ubriaco, è stata solo sfortuna», ha detto.
E intanto ha trovato il tempo di pubblicare “The Eternal Buzz and the Crock of Gold”, un sontuoso libro d’arte elogiato dal critico Waldemar Januszczak per il «tipo di energia demenziale, selvaggia, affascinante e scabrosa». Copie del libro furono vendute a mille dollari l’una per raccogliere fondi per le sue cure.
In una delle sue ultime interviste, Shane MacGowan ha insistito sul fatto che, nonostante la sua esplicita autodistruttività, desiderava vivere a lungo. «La vita mi piace». In questi giorni, si brinda a lui alzando boccali di birra in ogni pub di Dublino. C’è chi giura che il Temple Bar non sia mai stato tanto silenzioso.
di Eleonora Bagarotti
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