Ai vostri figli piacerà: “Asteroid City” di Wes Anderson


Non sono mai stata nostalgica, ancora meno quando si parla di cinema: eppure a ogni nuovo film di Wes Anderson mi ritrovo a pensare che là dove c’era l’erba ora c’è una cittaaaaaaaaa e quella casa in mezzo al verde ormai dove saraaaaaaaa.
Il mio disamore per il regista texano viene da lontano e infatti Wes, non ho detto gioia ma noia, noia, noia, noiaaaaaa.
Sei stato tu, Wes, che hai smesso di metterci il cuore e mi hai lasciato qui a ripetere come un disco rotto che non sei più quello di una volta, quando mi accompagnavi all’aeroporto. Sono ormai dieci anni che tra noi non funziona: io ti propongo di uscire e tu ti chiudi in casa a giocare con i tuoi modellini in sezione, con le tue figurine che si muovono come sempre nei loro universi elitari leggiadre e malinconiche su sfondi perfettamente geometrici, sempre più bidimensionali, sempre più astratte, sempre più blasé.


Bada, non ho mai smesso di guardare i tuoi film e sperare, e tifare per te, aggrappandomi al grande amore che ci legava quando i tuoi personaggi erano pochi e vivi e disperati, quando mi volevo vestire e truccare e comportare come Margot Tenenbaum. Ero in sala a Cannes quando in concorso è passato “Asteroid City”, che ora è uscito anche in Italia, un racconto nel racconto che a volte esce dal racconto con le solite mille star, alcune con pochi minuti di girato. Il film si apre con un narratore (Bryan Cranston), che racconta e mostra la genesi di una pièce teatrale scritta da un celebre commediografo (Edward Norton), che poi verrà messa in scena da un regista (Adrien Brody), che poi diventa (a colori) la storia di una comunità che nel 1955 si ritrova in una città in mezzo al deserto del Nevada, un luogo noto per il cratere lasciato dall’impatto di un meteorite. Qui è stata organizzata la convention degli Stargazers, cadetti spaziali che celebrano l’Asteroid Day, dove i genietti insieme ai loro genitori per due giorni si dedicano allo spazio. Qui arrivano un reporter di guerra in lutto per la moglie (Jason Schwartzman), un’attrice che sa esistere soltanto nello sguardo degli altri (Scarlett Johansson), un nonno malinconico che prova a raggiungere le nipotine (Tom Hanks), una scienziata sopraffatta dagli eventi e una varia umanità perduta in uno spazio troppo grande. Improvvisamente un extraterrestre arriva dal cielo e il governo degli Stati Uniti, allarmato dalla presenza aliena, mette tutti in quarantena, costringendoli a coabitare pazientemente.

Ero in sala a Cannes quando scrivevo che come sempre il tuo film è elegantissimo, coloratissimo, formalissimo, e, come accade già da qualche anno, privo di reale struttura. In questo infinito affastellarsi di personaggi e star, spesso in scena solo per qualche minuto (come Jeff Goldblum nei panni dell’alieno), ancora una volta hai lasciato per strada la storia, il dramma, il dolore. È con grande fatica che continuo a guardare questi continui esercizi di stile e a sentire questi dialoghi affettati e il mio acuto senso del dramma comincia a pensare che tu mi stia prendendo in giro.


Ero in sala a Venezia alla prima del corto “The Wonderful Story of Henry Sugar”, il primo dei quattro che hai girato dai racconti di Roal Dahl, altra storia dentro la storia dentro la storia narrata da Ralph Fiennes e subnarrata da Benedict Cumberbatch, tutto pieno di trucchetti narrativi e visivi ed ero più annoiata dei giornalisti di Ennui-sur-Blasé. Ho guardato gli altri tre corti su Netflix e mi sono rianimata solo davanti a “The Swan”, che se non altro è di una tristezza leggendaria. Ti ho visto a Venezia parlare davanti a un pubblico di fan, con quel tuo modo pacato, quella tua voce sussurrata, quel tuo volto pallido, quella tua gentilezza d’antan, ma forse alla fine sei rimasto senza sangue, e senza storie, come l’uomo ratto del tuo film, che “improvvisamente si accorse che il suo pubblico non lo seguiva più”.


Quando tornate a casa, fate vedere i suoi corti ai vostri bambini: se hanno circa dieci anni, a loro piacerà.

 

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