Andy Summers si racconta tra musica, scrittura e fotografia: “I Police sono stati un gran bel trio, ma io ho sempre amato esplorare i suoni”

C’erano una volta i Police, E il loro chitarrista, Andy Summers. Un musicista che è stato, ed è, molto più di colui che ha sbancato per anni e anni le classifiche, ha suonato canzoni che ancora oggi tutti ricordano e canticchiano ed è stato uno dei chitarristi rock più studiati e imitati dai suoi giovani colleghi.
Specialmente in Italia, Andy è subito collocato nei Police, il trio guidato da Sting con un batterista favoloso, Stewart Copeland, che scrive colonne sonore ed opere, infatti ne porterà una a fine mese a Milano. Tra il 1978 e il 1983 hanno dominato la scena mondiale confezionando successi come “Roxanne”, “Message in a bottle”, “Every breath you take”. Canzoni dall’impatto epidermico, capaci di entrare in testa dal primo ascolto ma benedette da una finezza compositiva ed esecutiva che stregava anche gli ascoltatori più esigenti, che altrimenti non avrebbero “perso tempo” dietro a un gruppo commerciale – a fregarli, il fatto che i Police erano (dopo i Beatles) il gruppo più intelligentemente commerciale della musica pop.
Buongiorno Andy, mi tolga subito una curiosità. Lei è davvero l’uomo che, secondo voci mai smentite, seppe dire di no ai Rolling Stones che nel ‘76 la volevano per rimpiazzare Mick Taylor, prima di scegliere Ron Wood?
«Sono io!  Prima di entrare nei Police, scelta che poi feci con grande entusiasmo, avevo suonato con tanti altri musicisti: ero chitarrista nella Zoot Money’s Big Roll Band, poi mi unii ad Eric Burdon e ai suoi Animals. Mi chiamarono praticamente tutti, non solo gli Stones».
Lei, però, è stato ben più di quello che, frettolosamente, si potrebbe definire un “turnista”.
«Diciamo che “turnista” è un termine troppo tecnico. Sono un musicista, da sempre interessato a cambiare, a spaziare. Amo ogni genere e collaborare con tanti musicisti diversi – dai Soft Machine a Kevin Ayers, da Neil Sedaka e Joan Armatrading  e chissà quanti altri di cui al momento non ricordo i nomi… – mi ha permesso di non stancarmi mai e di crescere come musicista, non solo come esecutore, anche se le due cose vanno di pari passo. Il tuo suono cresce se anche tu cresci, impari, ti confronti con altri».
Di grande respiro sono state le sue collaborazioni in ambito Jazz, genere da sempre amato anche da Sting.
«I Police hanno sempre avuto riferimenti forti ed ampi, anche quando scrivevano canzoni pop. Ho suonato con Herbie Hancock, Brian Auger, Vinnie Colaiuta, ma ho anche collaborato con la musicista brasiliana Eliane Elias e con tanti musicisti rock. Per me e per molti “rocker”, il rock è meglio se contaminato. I confini, nella musica, sono sempre molto labili e, per questo motivo, mi sono dedicato anche alla musica sperimentale. Non amo il cliché».
Infatti ricordo di averla applaudita a pochi chilometri da casa, in una vecchia discoteca nella nebbia padana, in mezzo ai campi. Erano i tempi di “Synaesthesia”.
«Spero di esserti piaciuto».
Ci può scommettere!
«Le sinestesie sono processi in cui uno stimolo diretto a un senso ne fa reagire anche altri. Come “vedere” un suono, ad esempio. Ecco, io non so descrivere la mia musica con un’etichetta, ma vorrei che facesse questo effetto. E su quel disco, che poi ho presentato dal vivo, ho lavorato con partner che erano sulla stessa mia lunghezza d’onda, come Mitchell Froom».
Io ho molto amato “The golden wire”, lo riascolto tuttora!
«Il mio terzo album solista, praticamente. Un bel lavoro, è vero. Sai che anch’io l’ho riascoltato di recente?»
Qual è la musica che apprezza di più oggi?
«Ci sono cose interessanti, e ci sono sempre state. Sono attento e curioso, poi ho i miei gusti, le mie preferenze… Le ho sempre avute, specialmente in fatto di chitarristi. Ho adorato i maestri del Jazz elettrico come  Bill Frisell, John Scofiel, John Abercrombie».
Lei ha arrangiato standard jazz per chitarra: Duke Ellington, per fare un esempio. Impresa quasi impossibile. Come ci è riuscito?
«Non lo so. A volte mi siedo e prendo la chitarra, cerco accordi ed armonie. Se non mi vengono, interrompo. Poi magari vado in cucina a prepararmi un panino o ceno con mia moglie e mentre sono a tavola, improvvisamente, nella testa arriva un’idea. Così, torno subito in studio, prendo la chitarra, suono ed ecco fatto! E’ tutto spontaneo, l’ispirazione resta un mistero».
Lei è anche un ottimo scrittore e fotografo. Ho visitato la sua mostra a Milano, adoro i suoi scatti in bianco e nero e penso che i suoi racconti, tradotti in italiano in “Giù di corda” (Sagoma editore, 229 pp, 22 euro), siano, per certi aspetti, immagini fugaci, con personaggi particolari, azioni veloci ma anche profondamente analitiche.
«Ti ringrazio perché la fotografia e la scrittura sono sempre state le mie passioni, insieme alla musica. Ho sempre scritto e scattato foto dei luoghi e della natura, in particolare. I miei racconti sono canzoni senza la musica, questa appartiene al suono delle parole nel silenzio della testa, di chi scrive e di chi legge. Ti anticipo che, dopo essere tornato da due  fantastici show in Giappone, nel 2025 tornerò a Milano, dove suonerò proiettando le mie immagini».
Cosa pensa dei Police, oggi?
«Sono stati un grande trio! C’è stato un momento in cui non mi interessava più suonare quelle canzoni. Poi mi è capitato di arrangiarne alcune e riproporle, ma sono contento del fatto di non essermi fermato lì, di aver percorso e coltivato altre idee. Alla fine, però, con i Police,  abbiamo sfornato canzoni niente male. Vuoi riascoltarne una?».
Mi esce un «sì» grosso come la Piramide di Cheope e così, va a finire che Andy imbraccia la chitarra e attacca “Every breath you take”. Un colpo di teatro, considerando che l’ha scritta Sting, ma anche la definitiva consacrazione di un suono unico che è nato proprio grazie alla sua chitarra.
QUELLA VOLTA IN CUI AL PIERROT DI SARMATO
SUONO’ LA SUA MUSICA SPERIMENTALE
C’era una volta un ometto biondo, sopra i 40 anni, che suonò, in una notte  nebbiosa, al Pierrot di Sarmato davanti a un pubblico scarso, sebbene entusiasta. Era il 24 novembre 1995. Quel signore – come dalle cronache di “Libertà” – faceva un certo effetto in quella cornice “intimista”. E non solo pensando al fatto che, con i Police, aveva dominato la scena mondiale, ma anche perché si era esibito davanti a centomila persone allo Shea Stadium di New York, come i Beatles.
Dopo lo scioglimento dei Police – poi ci sarebbe stata la reunion del 2007 – Andy Summers, per un periodo, ha navigato orizzonti più alternativi, evitando goffi tentativi commerciali per dedicarsi in santa pace alla musica che preferiva. Nel caso del concerto al Pierrot, niente canzoni ma solo brani strumentali in cui il suo suono, leggendariamente pulito e curato, si sposava a una fine ricerca armonica.
La tappa live era basata sul suo ultimo album di allora, “Synaesthesia”. Al suo fianco c’erano Michael Shrieve, un batterista vecchio stile collaboratore di Mick Jagger e Carlos Santana, e Jerry Watts, un giovane strumentista che già dimostrava di essere un bassista ipertecnico.
Nonostante alcuni problemi tecnici – quella sera dovevano aprire le Custodie Cautelari del piacentino Davide Devoti, già chitarrista di Vasco, ma l’esibizione saltò – alla fine, anche se in forte ritardo, Andy &Soci salirono finalmente sul piccolo palcoscenico. Tutto intorno, un giro di luci rétro in perfetto stile disco Anni 70. Faceva un pochino sorridere, pensando che Andy ha sempre avuto il pallino della tecnologia e, almeno a quei tempi, il vintage non andava ancora di moda.
In ogni caso, l’ex Police seppe sfruttare la vasta gamma di effetti offerti dalla sua pedaliera, suonando sonorità sofisticate, prossime alla “fusion” e, al tempo stesso, lontane dal tecnicismo fine a se stesso, che spesso affligge il genere. Sonorità psichedeliche che fanno capolino qua e là, armonie sofisticate però anche melodie orecchiabili. Un insieme di buon gusto, senza alcun dubbio.
Nei bis, frugando tra i ricordi personali, sono certa fosse arrivato anche un rock blues in perfetto stile primi Anni 70, di cui però non ricordo il titolo. Il tutto, sottolineo, nel 1995 risuonava fuori moda, in quella misura quasi provocatoria, mai urlata.

Summers al Pierrot nel 1995 bagarotti

Summers ha sempre avuto l’aria di qualcuno a cui importa solo della musica, del resto le sue scelte (vedi intervista qui sopra) lo dimostrano ampiamente. Poche rockstar (o ex star) si sono mai trovate quanto lui nella condizione invidiabile di chi può fare quello che vuole. Invece di produrre con il fine di raddoppiare, quando non triplicare, i propri guadagni, Andy ha fatto una cosa “fichissima”: musicalmente si è divertito, con la massima libertà.

di ELEONORA BAGAROTTI

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