Beyoncé parla di “Cowboy Carter”, il suo album da record. E un ricordo delle Destiny’s Child in Italia
Beyoncé sopra tutti, con un album da record e non solo perché “Cowboy Carter” ha vinto ben 32 Grammy ed è il più ascoltato su Spotify. La cantautrice e attrice, già leader delle Destiny’s Child, ha regalato una rilettura personalissima e innovativa di alcuni grandi classici, conquistando le vette di tutte le classifiche. Con il singolo “Texas Hold ‘Em” è stata la prima donna nera per due settimane in vetta della classifica Hot Country Songs di Billboard, «forse il riconoscimento che mi ha dato maggior piacere», ha detto Beyoncé, anche executive producer dell’album in cui cerca di «elevare, amplificare e ridefinire i suoni della musica, smantellando le false norme accettate sulla cultura americana. Rendo omaggio al passato, onoro i pionieri della musica country, rock, classica e lirica».
L’album è nato in un contesto, e di conseguenza in un’atmosfera, unico: tra visite ed esibizioni allo Houston Rodeo – Country, Rhythm & Blues, Blues, Zydeco e Black Folk. Tra gli strumenti utilizzati ci sono la fisarmonica, l’armonica, il washboard, la chitarra acustica, l’ukulele basso, la pedal steel guitar, un Vibra-Slap, il mandolino, il violino, l’organo Hammond B3, il tack piano e il banjo. Ci sono poi battiti di mani, passi di ferro di cavallo, colpi di stivali su pavimenti in legno e le unghie di Beyoncé usate come percussioni. La voce della cantante è al centro di tutto come un riflettore acceso su una narrazione intrisa di verità, «rivelando storie nascoste e godendo di tutta la magia necessaria per un viaggio verso le radici». Beyoncé prosegue così il suo studio della storia e della musica americana, staccandosi dal precedente “Renaissance”, che celebrava la Dance come rinascita dopo la pandemia.«La gioia di creare musica è che non ci sono regole – prosegue la cantautrice -. Più vedo il mondo evolvere, più sento una connessione più profonda con la purezza. Con l’intelligenza artificiale e i filtri digitali, io volevo tornare agli strumenti reali e ho usato quelli molto vecchi. Ho mantenuto alcune canzoni grezze e ho puntato sul Folk. Tutti i suoni sono così organici e umani, cose quotidiane come il vento, scatti e persino il suono degli uccelli e il verso dei polli, i suoni della natura».
L’ispirazione tiene conto ulteriormente della cultura meridionale e occidentale oltre alla musica, al rodeo, ai film western e alle storie dei cowboy originali del West. È stato al Rodeo che Beyoncé ha visto «per la prima volta la diversità e il cameratismo tra le persone che amano la musica country e uno stile di vita americano. Non a caso, tra la folla c’erano cowboy neri, ispanici e nativi americani».
“Cowboy Carter” è un perfetto insieme di 27 canzoni che cullano e incoraggiano, esplorano gamme sonore e sperimentano, formando un raro corpus dal risultato stupefacente: ascoltiamo “Blackbird” dei Beatles e “Jolene” di Dolly Parton, al fianco di “Sweet honey buckiin’”, “River dance”, “II most wanted”.
«Mi piace essere aperta e avere la libertà di esprimere tutti gli aspetti delle cose che amo e quindi ho lavorato su molte canzoni – dice -. Ho registrato probabilmente 100 canzoni. Dopo di che, ero in grado di mettere insieme il puzzle e realizzare le coerenze e i temi comuni per creare un solido corpus di lavoro».
La cantautrice ha preso ispirazione anche dai film: “Five fingers for Marsiglia”, “Urban Cowboy”, “The hateful eight”, “Space Cowboys”, “The harder they fall” e “Killers of the flower moon”, proiettandoli su uno schermo durante le fasi di registrazione. «Alcuni aspetti delle percussioni sono stati ispirati dalla colonna sonora di “O brother, where art thou?”, dove c’era più Bluegrass».
Il personaggio Cowboy Carter è nato da queste esperienze e si è ispirato agli originali cowboy neri del West americano. La stessa parola cowboy era usata in modo dispregiativo per descrivere gli ex schiavi come “ragazzi”, che erano i più abili e svolgevano i lavori più duri nel maneggiare cavalli e bestiame. «Nel distruggere la connotazione negativa, ciò che rimane è la forza e la resilienza di questi uomini che erano la vera definizione della forza d’animo occidentale».
Il processo a volte è durato anni: «Significava combinare pezzi di registrazioni diverse, cambiare la strumentazione qui, aggiungere un rullante là, per arrivare al punto perfetto al momento giusto. Per questo, l’album ha richiesto più di 5 anni – dichiara Beyoncé -. È stato fantastico avere il tempo e la grazia di potergli dedicare tempo. Inizialmente avrei dovuto far uscire “Cowboy Carter” prima di “Renaissance”, ma con la pandemia il mondo era troppo pesante. Volevamo ballare. Meritavamo di ballare. Ma dovevo fidarmi dei tempi di Dio».
I contributi del nuovo album, oltre a un gruppo stellare di collaboratori e tecnici, include grandissimi artisti: Dolly Parton, Willie Nelson, Linda Martell, Stevie Wonder, Chuck Berry, Miley Cyrus, Post Malone, Jon Batiste, Rhiannon Giddens, Nile Rodgers, Robert Randolph, Gary Clark, Jr., Willie Jones, Brittney Spencer, Shaboozey, Reyna Roberts, Tanner Adell e Tiera Kennedy.
“Cowboy Carter” è la miscela musicale che nessuno si aspettava, che amiate Beyoncé o meno. Il suo album è già, senza ombra di dubbio, il migliore dell’anno – ma la valutazione potrebbe coprire anche un tempo maggiore. Riguarda la cultura, l’eredità e un’aggiunta fondamentale al canzoniere americano da parte di uno dei talenti femminili più importanti e creativi di questo secolo. Un’artista che, dietro a questo lavoro durato alcuni anni, ha avuto sicuramente un’idea precisa, e l’ha portata a termine.
«Penso che le persone rimarranno sorprese perché non penso che questa musica sia ciò che tutti si aspettavano da me – aveva anticipato Beyoncé -. Ma è la migliore musica che io abbia mai fatto».
Nel frattempo Beyoncé – oltre che moglie di Jay-Z e madre di tre figli – è anche un’ottima imprenditrice. La Parkwood Entertainment, da lei fondata nel 2010, è una società di produzione cinematografica e di spettacoli con sedi a Los Angeles e a New York City. Ospita dipartimenti dedicati alla musica, al cinema, ai video, alle performance dal vivo, alla produzione di concerti, alla gestione e allo sviluppo aziendale, al marketing, al digitale, alla creatività, alla filantropia e alla pubblicità. Con il nome originale di Parkwood Pictures ha rilasciato i film “Cadillac Records” (2008), co-prodotto e interpretato da Beyoncé, “Obsessed” (2009), con Beyoncé protagonista e produttrice esecutiva, “Lemonade” (2017), “Homecoming: A film by Beyoncé” (2019), che documenta la sua performance storica al Festival di Coachella nel 2018; inoltre “Black is King” (2020), “The Mrs. Carter Show World Tour” (2013-2014), “The Formation World Tour” (2016), “On the run I & II” (2014 e 2018) e “Renaissance World Tour” (2023).
L’AMARCORD: QUANDO LE DESTINY’S CHILD FUGGIRONO AL FAST FOOD
Ho sempre pensato a Beyoncé come a «una di noi». Anche dopo la sua splendida interpretazione in “Dreamgirls”. Anche dopo averla applaudita a Live 8 con le Destiny’s Child – tutte le altre sparivano al suo cospetto. Anche ora, che è diventata una delle più grandi artiste e imprenditrici. Tutto nasce da alcuni fattori caratteriali.
A partire dalla prima volta delle Destiny’s Child in Italia, già scortate – all’inizio degli anni Duemila, appena diciottenni – da una schiera di bodyguard e uno staff di persone guidate, con severità, dal padre e manager Mathew Knowles. Va detto che la tostissima Beyoncé Giselle Knowles-Carter, nata nel 1981 a Houston, Texas, già a 8 anni decise, con l’amichetta LaTavia Roberson, di creare un gruppo che fosse la risposta femminile moderna ai Jackson 5. Detto, fatto!
Le Destiny’s Child arriveranno sulla scia del fanciullesco quartetto Girl’s Tyme, al quale si erano aggiunte nel frattempo Jelly Rowland e LeToya Luckett. Nel 1997 esce il primo singolo “No, No, No” e subito il grande popolo R&B le idolatra. Due anni dopo, Luckett and Roberson lamentano un certo favoritismo del manager nei confronti di Kelly (che è sua nipote) e della figlia Beyoncé. Michelle Williams e Farrah Franklin sono già lì a sostituirle, grazie alla prontezza e al decisionismo di papà Knowles. Seguirà una disputa legale, ma sta di fatto che il successo delle Destiny’s Child è destinato a crescere. Anche in Italia, dove, con l’ennesima dipartita della Franklin, arriva il consolidato trio che canta “Survivor” a Sanremo (2002) e conquista tutti.
Proprio durante quella tappa promozionale italiana, spesso le ragazze si annoiano. E così, un bel giorno, chiedono all’autista della casa discografica: «Per favore, basta dieta! Abbiamo fame! Vogliamo andare ad abbuffarci di hamburger e patatine fritte!». L’autista in questione – che qui resta anonimo ma è un mio amico – ovviamente, con tutti quei voluttuosi battiti di ciglia, cede e sta al gioco. Così, di nascosto e in piena notte, aspetta Beyoncé, Michelle e Kelly davanti alla porta secondaria di un lussuoso hotel milanese, poi le scorta al primo McDonald’s. Loro entrano tra gridolini, nessuno le riconosce, poi escono saltellando con una decina di borse zeppe di Junk Food, fritti e salse («ho tenuto le macchie sull’auto per molto tempo, mi dispiaceva toglierle perché erano un bel ricordo», mi ha confessato lui).
Se ciò non bastasse, nonostante la fama internazionale e l’ormai indiscusso talento, Beyoncé è stata “umana” anche quando, saputo dell’infedeltà del marito Jay-Z, lo ha “svergognato” platealmente nel brano “Sorry”. Poi lui è tornato con la coda tra le gambe e lei se lo è ripreso. Ma, ci scommetterei, solo dopo un recupero punti che, al confronto, l’addestramento per la guerra in Iraq deve essere stata una passeggiata.
di ELEONORA BAGAROTTI
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