Brian May: “Insieme a Mercury abbiamo perso Deacon ma i Queen sono vivi”
Brian May è il signore del rock. Il chitarrista dei Queen, reduce da una serie di concerti con il gruppo in Nord America, è stato insignito del titolo di Sir da Re Carlo III in virtù della sua attività musicale e dell’impegno benefico. Eppure, quando – anni dopo la morte di Freddie Mercury e la pubblicazione di “Made in Heaven” nel 1995, con le ultime tracce registrate dal cantante – decise di proseguire mettendo nella band un altro cantante (Paul Rodgers, ex Free e Bad Company), iniziarono a piovere le polemiche. Rodgers è stato sostituito, nel 2012, da Adam Lambert e con quest’ultimo i Queen salgono ancora in palcoscenico. «Tornare in America è un’esperienza bellissima, ne vale la pena. Il paesaggio è meraviglioso, mi era mancato negli ultimi anni. Adam è con noi da oltre 10 anni: un tour è un bel modo di festeggiare la nostra collaborazione».
Nel frattempo, avete riproposto un vecchio brano. Come mai?
«“Machines (or Back to Humans)” parla di come la tecnologia tenda a sopraffare la vita umana, anche nei gesti più intimi. Non è una canzone pessimista, però: il messaggio è che gli uomini non si lascino sopraffare, ma utilizzino le macchine senza scordarsi della propria umanità. E’ una canzone ancora molto attuale. Il tour “Rapsodia” inizia proprio con questo brano, un’immersione distopica in cui i fan sentono anche la voce di Freddie Mercury».
Vi chiamate Queen + Adam Lambert, come a dire “Freddie Mercury è insostituibile”.
«Lo abbiamo fatto in totale accordo, io e Roger Taylor, perché Freddie Mercury insostituibile lo è davvero, e soprattutto fa ancora parte dei Queen. Spiritualmente è con noi che gli rendiamo onore ogni sera cantando le canzoni che lui amava».
Lo scorso marzo la rivista Total Guitar l’ha eletta, in base ai voti ricevuti dai lettori, il miglior chitarrista di sempre.
«Ringrazio chi mi ha votato, la cosa mi allieta ma, naturalmente, so di non essere il miglior chitarrista di sempre. Io stesso potrei citare tanti colleghi, da Jeff Beck a Eric Clapton, da Jimi Hendrix a Eddie Van Halen… Ogni chitarrista è diverso dagli altri. Non è solo la questione tecnica, a fare la differenza sono l’espressività, la musicalità, la personalità. Forse è impossibile eleggere un solo miglior chitarrista. Nel mio caso, ho sempre considerato la chitarra come uno strumento che doveva “parlare” per me. Ciò che ho dentro, come spesso accade ai musicisti, esce attraverso il mio modo di suonare la chitarra. In questo senso, sono certamente riconoscibile come altri validi strumentisti».
Il bassista John Deacon, poco dopo la morte di Freddie, invece ha deciso di ritirarsi.
«Quando abbiamo perso Freddie, in un certo senso abbiamo perso anche John. Io e Roger abbiamo capito, e rispettato, la sua decisione. Suonare senza Freddie gli risultava insopportabile. Per noi è stato, è e sarà sempre difficilissimo. Ma ogni concerto è dedicato a lui, ogni nuovo progetto è un modo per mantenere viva la sua memoria. Lui avrebbe voluto così».
C’è qualcosa, rispetto alla morte di Mercury, colpito da Aids, che non avete gradito a livello mediatico?
« All’inizio la stampa è stata irrispettosa ed eccessiva, ma la cosa più importante è che noi tutti siamo stati vicini a Freddie, lo abbiamo stretto tra le braccia e, metaforicamente, continuiamo a farlo. I giornali scandalistici sono sempre esistiti… Piuttosto, ogni tanto penso a cosa sarebbe potuto accadere se si fosse ammalato adesso, avrebbe potuto curarsi. L’importante è continuare a fare informazione corretta, e prevenzione, soprattutto per le giovani generazioni. Cantare in un gruppo rock aiuta a lanciare messaggi importanti e certi eventi che abbiamo fatto hanno contribuito a sostenere cause benefiche ».
Ed anche per questo motivo, lei di recente ha ottenuto il titolo di Sir. Cosa ha provato?
«E’ stato un onore. Per un inglese, quello è il riconoscimento di quanto di buono si è fatto per la propria nazione nel mondo. Ho pensato a Freddie, in quel momento. E agli altri Queen. Abbiamo costruito tutti insieme una storia musicale e una vicenda umana fantastiche».
In Italia sta per tornare in scena il musical “We will rock you”.
«Mi fa piacere, il pubblico italiano è sempre stato molto affettuoso nei nostri confronti. Le canzoni di quel musical assumono sempre connotazioni differenti e sorprendono anche per me, che ne ho scritte alcune. Quando abbiamo registrato i nostri album, nessuno immaginava uno scenario futuro, ci speravamo soltanto ma era un bel sogno. E’ bello che tutto ciò accada realmente».
Nei mesi scorsi la Proud Gallery di Londra ha ospitato la mostra “Queen – We will rock you in 3D”.
«Sono molto orgoglioso che ai Queen sia dedicata attenzione anche dal punto di vista visuale ed estetico. Sono appassionato di fotografia e amo molto l’esperienza immersiva che oggi è possibile sperimentare in quelle sale in cui ti ritrovi dentro a un’opera d’arte. In questo caso, i fan possono ritrovarsi sul palco di un concerto insieme a noi e a Freddie. La realtà virtuale è un bellissimo sogno da vivere».
Per questo motivo ha realizzato il libro “Queen in 3D”?
«Regalare quel tipo di esperienza è il modo più forte e sincero di essere vicini ai fan. Chiaramente nulla può sostituire l’atmosfera di un concerto, lo abbiamo sperimentato ogni sera suonando negli Stati Uniti. Tornando al mio libro, è stato realizzato con la tecnica della stereoscopia, quindi le immagini trasmettono la tridimensionalità. I Queen sono sempre stati “avanti”, da questo punto di vista, io continuo ad averne cura».
La fama è mai stata una condizione pesante per lei?
«Ho imparato a gestirla. E devo dire che, per Freddie, la fama non è mai stata un problema. Essere diventato Freddie Mercury dei Queen è esattamente ciò che desiderava essere nella vita. Era già una star, voleva essere conosciuto per quello. Il prossimo febbraio, io e Roger saremo in tour in Giappone. Essere famosi non è poi così male».
di Eleonora Bagarotti
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