Curt Smith e Roland Orzabal dei Tears for Fears: “Nel nostro nuovo album un debutto live e una freschezza ritrovata”
Se siete stati ragazzi negli Anni 80, allora oggi, ascoltando il nuovo album dei Tears for Fears (sopra in una foto di Chapman Baehler) vi sentirete catapultati indietro nel tempo, almeno quanto Marty McFly e Emmett L. “Doc” Brown sulla macchina del tempo di “Ritorno al futuro”.
Magari siete tra coloro che, pur avendo gusti diversi, con il passare degli anni hanno decisamente rivalutato la musica degli 80s, fondamentalmente del pop-rock con sovrabbondanza di tastiere e suoni campionati denominato, in modo generico, New Wave. In ogni caso, il nuovo album “Songs for a nervous planet” dei Tears for Fears sta suonando di default in casa mia perché è un disco con belle canzoni che non tradisce le aspettative originarie. Insomma, qualche volta trovare ciò che esattamente ti aspettavi è rassicurante – sarà che, in campo musicale così come nella vita, capita raramente.
Prima di tutto, stiamo parlando di un live, il primo ufficiale del duo inglese, che però contiene quattro nuove tracce incise in studio, tra le quali “The girl that I call home”, un singolo che è «la canzone d’amore che da tempo cercavo di scrivere per mia moglie, e finalmente ce l’ho fatta», ha dichiarato Roland Orzabal.
In concomitanza con l’uscita dell’album, è stata trasmessa la performance dal vivo al FirstBank Amphitheater di Graystone Quarry a Franklin, nel Tennessee, durante una tappa del “Tipping point tour part 2”, registrata lo scorso anno. «Molte persone non sanno che dal vivo siamo una buona band, in realtà! Vedono un duo e credono che sul palco ci saranno solo due persone con un paio di tastiere e un mucchio di materiali preregistrati come accompagnamento – hanno spiegato Curt Smith e Roland Orzabal, che si circondano di ottimi musicisti (oltre ad esserlo) -. Nel corso degli anni, siamo notevolmente migliorati rispetto a quello che viene considerato il nostro periodo di massimo splendore, gli Anni 80. Non abbiamo mai pubblicato un album dal vivo ufficiale, quindi si potrebbe dire che questo sia un album in lavorazione da quarant’anni!».
Oltre al singolo, ci sono tre nuove tracce: “Say goodbye to mum and dad”, “Emily said” e “Astronaut”.
«La cosa incredibile è che stanno benissimo accanto ai vecchi brani, le sonorità si abbracciano anche se parliamo di noi al presente. La prima canzone parla del rapporto genitori e figli, la seconda è riferita a Emily (la seconda moglie di Orzabal a cui è dedicato anche il singolo, ndr). “Astronaut” è la nostra “Englishman in New York”:parla del senso di alienazione provato da un uomo che non si sente di appartenere a questo mondo e preferirebbe fluttuare nello spazio. E’ stato bello riscontrare che i nostri vecchi brani suonano attuali, accanto ai nuovi che esprimono un’evidente freschezza. La stessa del live dell’anno scorso. Un contributo fondamentale a tutto ciò lo ha dato Charlton Pettus (chitarrista, autore, produttore, ndr)».
Siete stati soddisfatti di essere tornati in studio?
«E’ stato molto bello. Il passare del tempo ci ha fatto capire che nessuno, meglio di noi, può produrre i nostri album».
La vostra storia è sempre stata frammentata, del resto vi siete conosciuti da ragazzini e la vita è lunga… come vi rapportate, oggi?
«Benissimo (esclamano in contemporanea, ndr). Sono accadute tantissime cose: a un certo punto ci siamo allontanati, anche fisicamente. Non ci siamo parlati per anni e nella vita di ciascuno è successo di tutto, ma poi è stato come riprendere un filo che non si era mai spezzato e ritrovare nuova linfa vitale. La nostra è davvero una bella storia da raccontare, vero?».
Sì, la storia dei Tears for Fears è indubbiamente bella da raccontare. E il riassunto è tutt’altro che semplice, viste le vicissitudini intercorse tra i due – ed anche nella loro vita privata, tra abbandoni, alcolismo, cause legali, lutti familiari – e la ritrovata armonia. Ma tutto è bene quel che finisce bene, e allora noi ci proviamo.
Tre album, “The hurting” (1983), “Songs from the big chair” (1985) e “The seeds of love” (1989), hanno venduto 30 milioni di copie. Alle spalle, anche l’inno femminista “Woman in chains” con Oleta Adams. Poi, nel 1991, la coppia – che, come da copione classico e consolidato, si era conosciuta a Bath formando una band durante l’adolescenza – si è lasciata.
Curt Smith e Roland Orzabal hanno intrapreso carriere soliste. Nel 2004, un disgelo ha portato a un nuovo album, “Everybody Loves a Happy Ending”, ma le vendite non sono state quelle sperate. «E’ andato dritto nella lista A di Radio 2», ha detto Orzabal, riferendosi alla playlist principale della stazione BBC. «Abbiamo fatto la tv americana, ma quando abbiamo guardato le vendite dei dischi, l’album che vendeva continuava ad essere il nostro Greatest Hits». Segno che il pubblico li preferiva al passato, tanto che i vecchi brani sono stati utilizzati in moltissimi film.
Poi è andata decisamente meglio. Soprattutto, sta andando meglio con il nuovo album “Songs for a nervous planet”, che li fa scoprire, stranamente dopo tanti anni, come ottimi interpreti dal vivo.
E se il sound non tradisce antiche memorie, va detto che i Tears for Fears hanno fatto molti tour, evitando gli spettacoli revival degli Anni 80: «Abbiamo rifiutato ogni volta – ha spiegato Smith – perché non ci consideriamo artisti solo di un decennio». Non a caso, hanno pubblicato cover di canzoni contemporanee di Hot Chip, Animal Collective e Arcade Fire. Certo, sembrava che ci fosse poca voglia di nuovo materiale. Il loro vecchio manager, a rinforzare, incoraggiava lo status quo: «Avete davvero bisogno di pubblicare un altro disco? Sarete sempre un gruppo storico, avete queste canzoni classiche, non preoccupatevi, continuiamo a fare tournée – ricordano i due -. Dopo un sacco di anni, eravamo allo stadio “Sta diventando un po’ noioso, adesso”. Non possiamo metterci più cuore se non abbiamo qualcosa di nuovo da dire, fare o suonare».
E’ bastato provare a riaccendere la miccia: il risultato è brillante. Non è arrivato all’improvviso: “Mad world” era stata reinterpretata da Gary Jules e Michael Andrew per il film cult del 2001 “Donnie Darko” e artisti più giovani come Lorde, The 1975, Kanye West e The Weeknd citavano Tears for Fears come influenza.
Inoltre, come non ricordare il recente “The tipping point”? E’ stato il loro primo progetto dopo 18 anni, uscito nel 2022 dopo il trauma della morte della prima moglie di Orzabal. Un’elaborazione del lutto sbalorditiva, che parlava anche di speranza, del movimento #MeToo e delle proteste del Black Lives Matter.
Bisogna proprio ammettere che questo duo britannico è invecchiato meglio di gran parte della cosiddetta Seconda Invasione Britannica di metà degli Anni 80. E pensare che la band si formò per dare voce all’urlo primordiale dello psicologo Arthur Janov, del quale anche John Lennon era stato seguace. Ed è proprio questo che significa il nome Tears for Fears: “Lacrime in sostituzione delle paure”. Sarà per questo che la loro musica emoziona ancora.
di Eleonora Bagarotti
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