Da “For all mankind” a “Fringe”: ecco perché l’ucronia è una tendenza immortale nelle serie tv
DA SEMPRE UN IMPORTANTE PILASTRO LETTERARIO DEL GENERE FANTASCIENTIFICO, È APPRODATO ANCHE SULLE PIATTAFORME
Esistono trend che non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano – proprio come gli amori cantati da Antonello Venditti nel suo brano “Amici mai”. Tra queste, una delle tendenze che stenta ad affievolirsi è quella riguardante le serie televisive basate sulle ucronie. Da sempre il genere ucronico rappresenta un importante pilastro letterario del genere fantascientifico, spesso confuso con il termine “distopia”. Infatti, esiste una differenza fondamentale tra i due generi: per distopia, infatti, si intende la rappresentazione di una realtà immaginaria del futuro, ma che può diventare prevedibile in base alle tendenze del presente, le quali sono percepite come altamente negative e per cui viene presagita un’esperienza di vita raccapricciante.
La serie “Black Mirror”, ad esempio, rientra tra le produzioni televisive distopiche: il serial antologico – ideato da e prodotto da Charlie Brooker, inizialmente per Channel 4 e successivamente per Netflix – racconta, infatti, possibili futuri in cui un uso spregiudicato delle nuove tecnologie (in particolare, in relazione ai nuovi media) comporta scenari spaventosi, con effetti collaterali devastanti. Se le distopie, in altre parole, sono direttamente connesse alla realtà quotidiana, le ucronie, invece, rappresentano una rilettura della Storia o del passato con esiti alternativi e, in certi casi, addirittura diametralmente opposti rispetto alla realtà. Detto altrimenti, per ucronia si intende quel genere letterario basato sulla premessa secondo cui la Storia abbia seguito un percorso alternativo rispetto agli eventi realmente accaduti. Se è vero che la letteratura ha sempre potuto contare su una produzione ricchissima di autori fondamentali, i quali, nel tempo, hanno contribuito a espanderne il discorso a dismisura (tra i più amati, c’è senza dubbio Philip K. Dick), anche il piccolo schermo non è mai riuscito a resistere al fascino delle ucronie, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Duemila.
Tra i primi esempi di serialità contemporanea che ha approfondito ed espanso il tema ucronico, c’è sicuramente “Fringe” (2008-2013) ideata dal creatore di “Lost”, J. J. Abrams, e da Alex Kurtzman e Roberto Orci. Quella che in apparenza è una serie fantascientifica che rende omaggio a un passato prossimo televisivo glorioso a partire da “X-Files”, “Fringe” assume, in realtà, molto presto connotati davvero unici: la serie, infatti, ruota attorno a fenomeni paranormali in apparenza inspiegabili ma che – come si scoprirà nel dipanarsi delle diverse stagioni – sono strettamente connessi ai viaggi nel tempo e alle influenze che su questi hanno un gruppo di individui, noti come gli Osservatori. Senza avventurarci troppo nel terreno scivoloso degli spoiler, possiamo dire che gli stessi protagonisti di “Fringe” si muovono attraverso diverse linee temporali e universi alternativi, offrendo uno dei primi esempi virtuosi di serialità ucronica, con il piglio unico di un autore originale ed eccezionale come J. J. Abrams. Se siete tra quelli che non hanno mai visto “Fringe”, potete recuperare tutte le stagioni sia su Disney+ sia sul servizio Sky Now.
Tra i serial di maggior successo di stampo ucronico usciti negli ultimi anni, c’è senza dubbio “The Man in the High Castle”. La serie – disponibile a tutti gli abbonati ad Amazon Prime Video in tutte le sue quattro stagioni prodotte – è tratta dal romanzo “La svastica nel sole” di Philip K. Dick. Proprio come nell’opera letteraria originale, anche “The Man in the High Castle” parte da una versione alternativa di un’importante pagina della storia contemporanea: a differenza degli eventi realmente avvenuti, gli Stati Uniti sono stati sconfitti durante la Seconda Guerra Mondiale e il loro territorio non esiste più, in quanto è stato spartito tra Germania e Giappone, che ne sono usciti vincitori. Proprio come accaduto nella Germania della realtà, gli Stati Uniti sono stati suddivisi in Est e Ovest, dove l’Oriente è di competenza nipponica (Stati Giapponesi del Pacifico, con capitale San Francisco), mentre l’Occidente è di pertinenza della Germania (Grande Reich Nazista, con capitale New York). In mezzo tra le due metà, c’è tuttavia una zona neutrale nota come gli Stati delle Montagne Rocciose – ed è proprio a partire da quest’area che si sviluppa l’avvincente narrazione di “ The Man in the High Castle”, una delle serie televisive più acclamate dalla critica, e che si pone come una straordinaria re-interpretazione di una Storia (reale) tanto importante quanto complessa. Meno conosciuta – ma semplicemente perché presente su un servizio over-the-top meno diffuso qui in Italia – è “For all Mankind”. Disponibile sulla piattaforma Apple TV+, la serie tv – creata e scritta da Ronald D. Moore, Matt Wolpert e Ben Nedivin – parte anch’essa dalla Storia reale per rileggerla in chiave alternativa. Ancora una volta, sono coinvolti gli Stati Uniti, ma in questo caso a partire dalla corsa allo spazio, sviluppatasi a partire dagli anni Sessanta: in questa versione ucronica, infatti, gli Americani sono stati “sconfitti” dalla Russia alla conquista della Luna, in quanto in un 1969 alternativo è il cosmonauta sovietico Aleksej Leonov ad essere il primo uomo a mettere piede sul suolo lunare – e non Neil Armstrong, come racconta la Storia. Inizialmente demoralizzati da questo sorpasso, gli Stati Uniti decidono di riguadagnare terreno, organizzando diverse missioni “Apollo” con lo scopo di esplorare e indagare la Luna prima degli “avversari” russi.
Partendo dagli anni Sessanta fino ad arrivare ai giorni nostri (è attualmente in produzione la quinta stagione che verterà sul presente contemporaneo), “For all Mankind” ha il grande pregio di intrecciare tra loro la realtà storica alternativa e il vissuto privato degli astronauti protagonisti della serie: i fallimenti derivanti dalle diverse operazioni di allunaggio ed esplorazioni spaziali si riflettono sulla vita stessa dei personaggi, lasciando un sapore dolce-amaro alla fine della visione di ciascun episodio. Come non citare, in chiusura, il caso emblematico di “Fallout”: la serie televisiva – tratta dall’omonimo franchise videoludico – è stata già rinnovata per una seconda stagione, dopo aver conquistato riconoscimenti in tutto il mondo, ed è uno degli esempi contemporanei più affascinanti quando si parla di ucronia televisiva. Ambientata durante una versione alternativa della Guerra Fredda – ai quali fronti opposti ci sono Stati Uniti e Giappone – “Fallout” si muove all’interno di una società retro-futuristica, in cui la minaccia atomica appare incombente. Con l’esplosione delle prime testate nucleari, alcuni cittadini del mondo che hanno aderito al programma della Vault-Tec – un’azienda che realizza rifugi anti-atomici, detti Vault – vengono trasferiti in appositi bunker numerati, in attesa che le radiazioni prodotte dalle bombe non siano più nocive. I meno fortunati sono costretti a restare nel mondo esterno, subendo gli effetti delle emissioni atomiche, talvolta con mutazioni importanti. Peccato che anche la vita riservata ai “privilegiati” dei Vault non sia altrettanto facile: nel momento in cui la protagonista viene costretta ad abbandonare il suo rifugio, viene a scoprire verità sconcertanti sull’esistenza stessa dei Vault, che imprime su “Fallout” un’aura oscura quanto talvolta comica – esattamente come accade nella serie videoludica. Se per caso vi siete persi la prima stagione, potete recuperarla completa su Amazon Prime Video.
di Fabrizia Malgieri
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