Da Jackie a Spencer: i film dell’orrore di Pablo Larraín
Pablo Larraín è un regista sottovalutato: il suo lavoro sui ritratti femminili, ci restituisce un regista capace come pochi di leggere sotto la pelle dei suoi personaggi, siano essi storici o inventati, come in “Jackie” del 2016, che racconta i quattro giorni successivi all’omicidio di John Fitzgerald Kennedy stando addosso letteralmente alla figura della moglie Jackie Kennedy, interpretata da Natalie Portman.
Il film è in parte basato sulla vera intervista del giornalista Theodore H. White a Jackie, realizzata una settimana dopo la morte del marito, e questo racconta, la verità di Jackie. Che sa che il marito non è perfetto, né come compagno né come statista, ma sa come costruire il mito dei Kennedy. Durante l’intervista Jackie racconta molte verità, ma solo alcune raggiungeranno la pagina scritta.
Strutturalmente è un film molto parlato, nervoso, quasi nevrotico, con una sceneggiatura di ferro fatta di magnifici dialoghi (premiata infatti a Venezia 2016, il film lo trovate su Chili per due spicci). Il lavoro di Jackie è rendere suo marito memorabile, come Lincoln: e così sceglie il luogo della sepoltura, decide le apparizioni con i bambini, organizza il funerale del marito, studia il percorso, i partecipanti, il corteo, la carrozza, i soldati, l’elenco dei capi di stato.
Jackie va dritta al punto con una intima percezione dell’impatto dei media, della televisione soprattutto “We have television now. Now people can see with their own eyes”, e costruisce l’icona del marito, pezzo per pezzo, apparizione per apparizione, parola dopo parola. Lavora per il ricordo del marito e contemporaneamente lavora per se stessa, perché “People like to believe in fairy tales”.
Jackie è una storia di morte, di orrore, di fantasmi. Ed è sicuramente una storia di controllo, di verità e di controllo della verità. E tutta la parte della morte e del post mortem (per dirla con un altro grande titolo di Larraín) e così impressionante proprio perché parte da una profonda verità, da quelle immagini del puro istinto di Jackie che sale sul cofano e cerca di raccogliere il cervello del marito sparso sulla macchina.
Nel 2019 Larraín si è concesso una parentesi contemporanea con “Ema” (anche questo è su Chili), dove la sinossi della storia, quella di una giovane ballerina (Mariana di Girolamo) che decide di separarsi dal marito coreografo (Gael García Bernal) dopo aver rinunciato al figlio che avevano adottato insieme ma che non sono stati in grado di crescere, non riuscirà mai a rendere giustizia a un’opera di questa potenza visuale, stilistica, musicale. “Ema” è un film intenso e fortemente innovativo che parla di una ricerca di maternità e famiglia che sfocia in un’ossessione e che va letto a livello emotivo e non razionale. Uno scontro tra generazioni, dove quella giovane trionfa letteralmente danzando. Larraín con un gusto visivo pazzesco ha messo in scena una tragedia del presente che si muove forsennata verso la celebrazione della vita che verrà. Per stile e tematiche “Ema” è puro cinema del futuro.
Ma dato che “bisogna farsene un’ossessione e restare ossessionati”, con “Spencer” Larraín torna a isolare tre giorni cruciali della vita di un’icona contemporanea. Il matrimonio tra Diana e Carlo è in crisi da tempo, le voci della sua relazione con Camilla Parker-Bowles si fanno sempre più insistenti, i comportamenti di Diana sempre più bizzarri e anti conformisti. In questo clima la famiglia reale organizza la festa di Natale nella residenza reale di Sandringham.
La Diana di Larraín (Kristen Stewart, candidata all’Oscar per questa interpretazione che ha già raccolto molti riconoscimenti) entra in scena come una persona smarrita, letteralmente perduta in mezzo alla campagna alla guida della sua macchina sportiva, che ha deciso di prendere da sola, senza scorta, senza accompagnatori. La Diana di Larraín entra, per l’ennesima volta, in una casa dell’orrore, in una prigione dove sei guardato a vista. La Diana di Larraín è una figura al limite, che sta per crollare mentre rimpiange tutto della sua vita da Spencer.
È chiaro fin dalle sequenze iniziali che “Spencer” è una favola horror, da quelle macchine che passano radenti vicino al corpo di un fagiano morto sull’asfalto, dai militari che portano il cibo, dal cambio della guardia tra militari e cuochi, da quella residenza austera alla fine del mondo, lontana dai centri abitati, dove Diana arriva, in ritardo, con la sua macchinetta pop. Per tutto il film Diana sarà convocata e richiamata al rispetto degli orari, per tutto il film scapperà in un’altra direzione. Fragile e pungente, ormai al limite della sopportazione, Diana non mangia e quando mangia vomita, vomita in anticipo sui sacri sandwich e sulle tradizioni familiari, si strappa la collana che Carlo le ha regalato, uguale a quella di Camilla, scambia i vestiti organizzati “come se tutto fosse già successo”. Diana è il fagiano bello ma non molto sveglio che aspetta di essere impallinato, dai fotografi, dalla famiglia reale, dai domestici, dal marito. Diana è l’immagine della solitudine in quei lunghi corridoi. Diana è l’insetto nella minestra, Diana è il cibo, Diana è i vestiti.
Diana è immagine pubblica, valuta sonante, Diana è tutto tranne che Diana Spencer, ed è quell’identità che cerca in quei tre giorni, quelle radici, quelle origini, quei jeans, quelle corse nel prato. Diana è la principessa che vuole andarsene dalla favola, perché l’ha esplorata in lungo e in larga e la favola ha confini, recinti, guardie, proibizioni, regole, molti antagonisti, e nessun lieto fine all’orizzonte. È un viaggio dell’eroe al contrario quello di Diana: se vuole un lieto fine la principessa deve letteralmente scappare dalla favola, insieme agli unici aiutanti che possono fornirle un potere magico.
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