“Dei bambini non si sa mai niente”: il mondo di Fabio e Damiano D’Innocenzo
Spopolano i fratelli D’Innocenzo a Berlino, ai Nastri d’Argento, ai Globi d’Oro, rubano la scena, si prendono le copertine delle riviste, Teresa Ciabatti li intervista, non so se sono più belle le sue domande o le loro risposte.
Per il loro cinema fuori dagli schemi, certo, ma anche per quello che sono, per come si mettono in scena e per come si fanno mettere in scena. Per la loro auto ed etero narrazione.
Pensateci un momento: quanti registi riconoscete nel panorama del cinema italiano contemporaneo? Ancora meglio: di quanti registi che abbiano cominciato a lavorare dopo il 2000 conoscete il volto nel panorama del cinema italiano?
Proviamoci: io riconosco Luca Medici aka Checco Zalone, Paolo Sorrentino, Luca Guadagnino, Matteo Garrone, Gabriele Muccino, Alice Rohrwacher, Stefano Sollima, Paolo Genovese, Claudio Giovannesi, Giovanni Di Gregorio, i Manetti Bros., Riccardo Milani, Giorgio Diritti. In quota donne registe post 2000 siamo fortunati perché possiamo schierare anche Valeria Golino e Valeria Bruni Tedeschi, facile. Ma, ad esempio, altri registi che mi piacciono molto come Gabriele Mainetti, quello di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, opera prima da oltre 5 milioni di euro di incassi? Sydney Sibilia della trilogia “Smetto quando voglio”? Matteo Rovere di “Corri come il vento” e “Il primo Re”? Li riconoscerei se li incontrassi per strada? Mah. Altri nomi che amo come Saverio Costanzo, Valerio Mieli, Pietro Marcello, Edoardo De Angelis? Tutti bravissimi, tutti poco visibili, tutti personaggi schivi.
E i D’Innocenzo, taaac, eccoli là, vestiti Gucci con le camicione, gemelli barbuti che si tengono per mano, indimenticabili.
Ho avuto la fortuna di incontrarli i D’innocenzo, ho visto come si guardano, ho sentito come parlano (bene), come si raccontano, come sono felici di essere riusciti a fare cinema, come riconoscono la propria condizione di privilegiati. Hanno lavorato con Garrone e questa è una bella spinta, ma solo una spinta rimane. Sono le storie che hanno scritto insieme per anni e che continuano a scrivere, è l’occhio allenato da milioni di letture libri e fumetti, è la mano dei disegnatori ragazzini, è un mondo da raccontare quello che si portano in dote, che esce attraverso sceneggiature, foto, poesie. Nel 2018 “La terra dell’abbastanza” va in anteprima a Berlino, i fratelli vincono il Nastro D’Argento come Miglior Regista Esordiente e una serie di altri premi ai Festival minori (e il Gobbo d’Oro al Bobbio Film Festival della Fondazione Fare Cinema). Nel 2020 “Favolacce” vince l’Orso D’Argento per la Migliore Sceneggiatura a Berlino, 5 Nastri d’Argento e 2 Globi d’Oro ed è un peccato che sia stato così penalizzato dal lockdown, che non gli ha permesso di uscire in sala: è stato proposto in streaming, adesso è già su Sky, sta girando adesso in sala nelle poche sale che hanno riaperto (siamo al 15% rispetto a quelle disponibili nello stesso periodo nel 2019) e nelle arene estive.
“Favolacce” è la storia di una comunità: alcune famiglie vivono in una provincia del litorale dove non manca niente tranne la felicità. Un film duro e poetico che intreccia i punti di vista dei bambini e dei genitori, cercando una narrazione oggettiva, mai di parte.
È estate, fa caldo, l’acqua è verde marcio, tutto è verde marcio, i sentimenti sono acidi e marci, il sesso è sempre violento, volgare, le risate e i pianti sono sempre isterici, ricolmi di cose non dette: “Favolacce” racconta vite infelici, rabbiose e violente senza un reale motivo, un malessere sommerso degli adulti, fatto di frustrazione, rabbia, convenzioni sociali e odio per le convenzioni sociali stesse, che si ripercuote sui bambini tra tentativi maldestri di imitazione e sviluppo di terribili progetti di gruppo.
I D’Innocenzo hanno dichiarato di essersi ispirati ai Peanuts, le strisce a fumetti di Charles M.Schulz dove i “grandi” non si vedono mai, come in un libro, grandioso e terribile e anche questo ai limiti dell’horror, di una giovane Simona Vinci, “Dei bambini non si sa mai niente”.
I D’Innocenzo fanno generazione, fanno notizia, fanno look, ma si meritano attenzione perché i loro film raccontano qualcosa di inaspettato, e noi ci meritiamo una nuova generazione di registi che ci raccontano storie che non avevamo mai visto.
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