Di dèi e mostri: le visioni di Oppenheimer e il pericolo della conoscenza
Si parla molto in “Oppenheimer”, moltissimo. Nolan, dopo aver esplorato la memoria, l’inconscio, la mente, lo spazio e il tempo e la loro distanza o vicinanza dal reale, ha rinunciato a questo giro a indagare nuove forme di manipolazione delle dimensioni e della loro messa in scena su uno schermo piatto, per tornare alla forma del racconto. Ma sempre a un racconto di scienza, perché Nolan sa bene quanto la scienza possa essere drammatica.
Nel 1942, in piena Seconda Guerra Mondiale, convinti che la Germania Nazista stia sviluppando un’arma nucleare, gli Stati Uniti danno il via al Progetto Manhattan, destinato a mettere a punto la prima bomba atomica della storia. Il governo americano, attraverso il generale Leslie Groves (Matt Damon), decide di mettere a capo del progetto il brillante fisico J. Robert Oppenheimer che nel piccolo mondo artificiale di Los Alamos, nel deserto del New Mexico, insieme a una preparatissima squadra di esperti, inizia a progettare un’arma rivoluzionaria.
La storia di Oppenheimer (Cillian Murphy, attore ricorrente nei film di Nolan), padre dell’atomica, il “distruttore di mondi”, il “Prometeo Americano” (che è il titolo del libro di Kai Bird e Martin J. Sherwin, vincitore del premio Pulitzer, da cui è tratto il film) viene raccontata su una molteplicità di binari, a colori e in bianco e nero, il passato glorioso che lo ha portato a diventare il direttore del Progetto Manhattan e il presente delle accuse di comunismo da parte di Lewis Strauss (un grandioso Robert Downey Junior che sembra ammiccare ad alcuni dei personaggi del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick), presidente dell’Atomic Energy Commission e principale antagonista di Oppenheimer dopo il suo pubblico rifiuto di sostenere il progetto per lo sviluppo della più distruttiva bomba-H.
Viene raccontata attraverso una quantità di protagonisti e testimoni e tantissime parole, quasi fossimo in un lavoro di Aaron Sorkin. Nolan ha scritto un film biografico con il ritmo di un thriller, dove senti la mente di Oppenheimer correre veloce quanto quella di Nolan, e i suoi pensieri volare sullo schermo in segni, proiezioni, scintille.
Lo sguardo di Oppenheimer (nel quale Murphy riesce a mettere ambizione, sensi di colpa, lussuria, dubbio, ammirazione, dolore) viene amplificato da lampi di anticipazioni di futuro, la sua mente viene “raccontata” mentre immagina i processi fisici ancora da tramutare in teoria e poi in pratica: se in “Inception” Nolan trascinava lo spettatore dentro la mente, il sogno, l’inconscio dei suoi personaggi qui il pensiero del personaggio esce dalla sua mente, dalle sua visioni, per arrivare dentro allo sguardo dello spettatore.
“Oppenheimer” è un film di uomini che costruiscono un mostro capace di uccidere e terrorizzare, accompagnato da una colonna sonora minacciosa. Un film di uomini con due donne che entrano nella vita del protagonista restituendoci altri pezzi della sua umanità: Florence Pugh che interpreta Jean Tatlock è una visione dentro a una visione, e Emily Blunt, la moglie di Oppenheimer, che condividerà con lui i momenti difficili del maccartismo, ha a disposizione una manciata di momenti, ma sufficienti a farci capire la sua forza e la sua determinazione, paragonati alla figura del marito, definito da Truman “un piagnucolone”.
E al centro della ricostruzione della Storia, tra verità e leggenda, tra “Jfk” e “Citizen Kane”, Nolan ha il narratore ambiguo: l’ebreo, simpatizzante di sinistra, sostenitore delle cause della libertà, e lo scienziato innamorato della propria mente, della propria capacità di arrivare là dove nessun altro era arrivato prima. L’uomo e lo scienziato in un continuo altalenante confronto che si schiantano contro il muro dell’etica, contro la guerra che finisce, contro Hitler che muore, contro il pericolo della conoscenza, contro le parole scambiate con Einstein.
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