Dove sono possibili cose impossibili: Freaks Out
Roma, autunno 1943: nella Roma occupata dai nazisti un gruppo sgangherato di circensi, di fenomeni da baraccone con poteri speciali, di freaks, perde il guscio protettivo del circo Mezzapiotta e viene scaraventato fuori, out, in mezzo alla guerra. Il proprietario del circo, un ebreo di nome Israel (Giorgio Tirabassi), va in città a cercare di comprare dei documenti al mercato nero per scappare dall’Europa devastata dal conflitto. Rimasti soli, i quattro compagni sono combattuti tra aspettare il ritorno di questo padre putativo o cercare una nuova casa al circo Berlin, quello dei nazisti, dove un super cattivo che può vedere nel futuro sta radunando una squadra di mostri come arma segreta per vincere la guerra.
Quando nel 2015 è uscito in sala “Lo chiamavano Jeeg Robot”, il primo film di Gabriele Mainetti, non ci credeva nessuno: le persone mi fermavano per strada e mi chiedevano se era bello davvero. E’ bello davvero, rispondevo, vai. E la storia del super eroe di Tor Bella Monaca e del suo antagonista lo Zingaro è diventata famosa, un piccolo film di culto, con dei signori incassi e una valanga di premi (per i marziani, è disponibile su Netflix). Tutta la critica italiana era compatta nei giudizi positivi e felice di avere a disposizione uno sguardo nuovo, e delle idee che non fossero sempre quelle dei soliti tre nomi che hanno le idee nel cinema italiano. Lo aspettavamo tutti questo nuovo secondo film, ne abbiamo seguito la lunga gestazione (sono passati tre anni dall’inizio delle riprese) e le difficoltà produttive e post-produttive legate soprattutto a fattori economici, come i tanti effetti speciali, che hanno fatto lievitare il budget finale del film (che si aggira intorno ai 12 milioni di euro, lo stesso Mainetti ha dichiarato più volte di aver messo a disposizione del film “tutti i soldi che avevo, e anche quelli che non ho”), abbiamo ammirato la tenacia del suo regista nel voler aspettare per farlo uscire in sala.
E’ innegabile, si contano sulle dita della mano i registi e i produttori che abbiano il coraggio di investire quel budget su un singolo film (per capirci, “La grande bellezza” è arrivato a sfiorare i 10 milioni): negli ultimi anni, grandi investimenti sono stati fatti per “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone, che, ci inchiniamo, ha speso 12 milioni di euro per una storia fantasy a episodi tratte dalle fiabe horror di uno scrittore napoletano del ‘600. O per “Il primo Re” di Matteo Rovere, continuiamo a inchinarci, che ne ha spesi 9 per la storia delle origini di Roma girata in protolatino. E come si fa a non tifare per chi si gioca tutto inseguendo un sogno di bellezza? Perché questo ha fatto Gabriele Mainetti, insieme al suo amico e sceneggiatore Nicola Guaglianone: hanno preso un uomo lupo, Natalie Portman bambina, il nano di “Freaks” di Todd Browning e un ragazzino albino, ma non sapevano che farne, finché Guaglianone ci ha provato: «Ce l’ho: i freak li facciamo con i poteri, nella Seconda guerra mondiale». E quindi nel film c’è l’attore famoso (ancora Claudio Santamaria) ricoperto di peli, ma elegante, dignitoso, una rockstar, c’è il giovane attore regista ora anche scrittore dal nome famoso (Pietro Castellitto, completamente fuori età rispetto al personaggio e che eppure, con quell’aria lunare che contrasta con il lessico da strada, è uno degli elementi più indovinati del film), c’è un attore di teatro (Giancarlo Martini), c’è il capocomico/padre (Giorgio Tirabassi) e c’è una ragazzina esordiente (Aurora Giovinezza) che dovrebbe essere il cuore del film.
E poi ci sono le ispirazioni, evidenti: c’è Il mago di Oz, Spielberg, Tarantino, i cinecomics, Monicelli, Sergio Leone, Fellini, c’è di tutto dentro “Freaks Out”, tanta storia del cinema e tanto cinema d’azione, esplosioni, stunt, assalti al treno, comparse.
“Il film parla di mostri che agiscono come uomini e di uomini che agiscono come mostri”, dicono regista e sceneggiatore, che hanno lavorato, come in tanti film di supereroi, sulla diversità come valore. La loro idea, quella di coniugare il pop dei supereroi che, mentre accettano la propria parte più profonda, più unica, incrociano la STORIA e decidono di incidere sulla STORIA poteva anche funzionare, ma in mezzo a tutta la potenza di fuoco di questo film, in mezzo agli effetti speciali e ai trucchi e ai costumi e alle esplosioni, in mezzo a tutta questa lodevole generosità ci sono diversi momenti, tra metraggio eccessivo, scelte di sceneggiatura e necessità produttive, che ti scaraventano a tratti fuori dal film e dalla magia. E questo è già un problema per un film che ti chiede, ti implora, di credere alla magia. In queste due ore e venti minuti c’è anche qualche problema di equilibrio: i mostri di Mainetti avrebbero avuto bisogno di più spazio per respirare, di più tempo per crescere e mettere radici nel cuore del suo pubblico. Ma quello per cui proprio mi dispiace è che non credo al personaggio principale di “Freaks Out”, non credo a Matilde la ragazza elettrica, non credo a quello che dovrebbe essere il cuore vivo pulsante e fiammeggiante del suo film, non credo al suo dolore. E che quella scena che lo dovrebbe raccontare, che avrebbe dovuto avere tempo, spazio, intensità, profondità, che avrebbe dovuto costruire intimità con chi sta guardando, è buttata via così, sacrificata all’altare del kolossal, del blockbuster, della dimensione internazionale, di Franz con le sue dodici dita che suona Creep al circo Berlin, dello sfoggio tecnico e muscolare, delle 1200 inquadrature di effetti speciali. E davvero mi dispiace, e davvero vorrei dire “non sei tu, sono io”, e davvero vorrei che ci andassero in tanti a vedere questo film, per l’audacia, per i tanti elementi apprezzabili che mette in gioco. Ma visto che ci hanno portato in un posto dove sono possibili cose impossibili, mi chiedo come abbiano fatto a dimenticare che è un super potere essere vulnerabili.
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