Due anni fa moriva Aretha Franklin. L’addio di Harlem alla sua Regina
Il 16 agosto di due anni fa Aretha Franklin ci ha lasciati. Mi trovavo a New York e decisi subito di recarmi ad Harlem. Quel luogo in cui, fino a qualche anno fa (ma forse anche oggi), le guide turistiche ti dicevano di “guardare dal pullman, facendo al massimo una sosta breve perché può essere pericoloso”. Ma soprattutto quel luogo in cui, pur essendo nata a Memphis il 25 marzo 1942, Aretha Franklin fu consacrata Regina.
Harlem è un luogo che molto racconta, a occhio nudo, della musica e della cultura afroamericana, uno dei due cuori della storia americana. Appena messo fuori il naso dalla subway, c’è una chiesa che si snoda in verticale sopra a un McDonald’s. Di sicuro non hai sbagliato strada. Il posto è questo e un’insegna stradale inequivocabile te lo dice subito, ti ricorda chi era Martin Luther King quasi sbattendotelo all’altezza del naso mentre tu ti senti effettivamente in minoranza. Prosegui, ipnotizzata da un vento caldissimo che odora di salsa, spezie, sudore, incenso, vaniglia. E ti ritrovi avvolta dalle lacrime che grondano lungo gli occhi di tantissime altre persone accorse all’Apollo Theater per piangere Aretha Franklin.
Intuivo già tutto quando per caso, giunta a Brooklyn Atlantic Avenue per infilarmi nella metro 5, sulla pedana ho visto una grossa giovane donna di colore che, facendo svolazzare tra le mani un foulard con sopra la faccia stampata di Aretha, gridava “Jesus loves you, He loves everyone and God bless Aretha!”
E ad Harlem, l’addio ad Aretha non è fatto solo di lacrime o biografie accurate sulla sua lunga carriera artistica e umana – vi basti ricordarla nel 2009 mentre canta a Washington, infiocchettata a festa per l’insediamento del neoeletto presidente Barack Obama. Nel quartiere si piange, si canta, si balla. Si mangia e si beve e ci si siede fuori dai negozi con radioloni che pensavo fossero spariti negli anni Ottanta, per far risuonare ovunque la voce, l’incredibile voce, di Aretha Franklin. Note su note che s’incrociano e si sovrappongono da un metro all’altro. Le hit ci sono tutte, la gente danza sopra la tristezza. Un vecchio elegante vestito di nero con una lunga barba bianca si trascina col bastone. Donne dagli enormi sederi, fasciate in abiti gialli e turbanti setosi, ancheggiano. Vecchie e giovani. Qualcuna alza le mani al cielo, altre cantano insieme ad Aretha, qualcuna si copre il viso con una sciarpa e si arrabbia quando arriva la flotta delle televisioni e cercano di inquadrarla.
Così, per circa 600 miglia. Si cammina piano, tra materassi appoggiati al muro e bancarelle su cui si espongono collane dorate con crocifissi enormi da portare al collo, abiti afro di terza generazione, scarpe da running e dentiere di brillanti. Sono usciti tutti, tutti quanti per lei. Sono scesi da casette fatiscenti – anche se improvvisamente un letto a baldacchino completamente dorato fa sfoggio da una vetrina – con i condizionatori arrugginiti alle finestre. Una strada lunghissima e dai colori caleidoscopici, il cui lato East è global, con tanto di banche e grandi magazzini, mentre quello West è fatto di carcasse ai bordi delle strade, cartomanti che improvvisano legamenti d’amore, homeless che dormono sopra fogli di giornale, lavori in corso, piccole fisarmoniche per bambini che spuntano da una cantina e barbieri specializzati in capelli afro.
Una parrucchiera si chiama Lady Love e quell’entrata un po’ buia sembra uscita dalla Times Square degli anni Settanta, lascia trapelare qualche dubbio, chissà cosa ci sarà dentro, chissà cosa accadrà al primo piano… Passando davanti alla porta, mi avvolge un forte profumo di fumo e un rapper all’angolo mi fa l’occhiolino.
L’Apollo Theater, il regno, è sull’altro lato della strada. Riesco a scorgerlo. Lì si sono radunati musicisti locali. Una bella ragazza è accorsa per cantare accompagnandosi con un tamburello. Cinque rasta montano una batteria. Ed ecco un messicano con chitarrona e sombrero. Poi, via tutti. Allontanati per far posteggiare le tantissime troupe televisive. Qualcuno sgomita per farsi intervistare, altri rifuggono le telecamere. A fare gli onori di casa, sull’uscio c’è uno degli attuali gestori. Elenca le storiche performance di Aretha Franklin, parla dell’Apollo oggi, le telecamere impazzano per inquadrarlo. “Non siamo il Madison Square Garden, ma di certo la ricorderemo degnamente. Questa era, ed è, casa sua”. E la gente, la straordinaria gente di Harlem, questo lo sa benissimo: per questo è venuta a dire “grazie di tutto e addio” a una vera Sister, per ciò che ha rappresentato per tutti loro. Gente come la nonna che ha portato qualche fiore, tenendo per mano una nipotina dalle deliziose treccine. Avrà 4 o 5 anni e osserva, serissima, l’immagine di Aretha accanto alla mattonella ricoperta di fiori che le è stata dedicata all’entrata del teatro.
Gente come la fila di motociclisti – di quelli che, a prima vista, davvero sembrano un po’ brutti e cattivi – che invece posteggia più avanti e poi tutti in coda, silenziosi, per lasciare una rosa. Un ragazzo lascia il suo berretto. Poco lontano, si sta organizzando una vendita di Cd dedicati agli artisti della Black Music, di quelli messi dentro alle bustine di plastica con le copertine originali fotocopiate. Intravedo Michael Jackson, i Temptations, Beyoncé…
Qualche metro indietro, si sta organizzando un evento serale. Un concerto. Forse inviteranno i musicisti arrivati di prima mattina, nei loro occhi nuota un barlume di speranza. Il palco è già pronto.
Sulla via del ritorno, le canzoni continuano a spuntare da ogni parte e si sovrappongono alle campane della chiesa del viale dedicato a Malcolm X. Perché dietro ad Harlem c’è una grandissima storia di musica e dove c’è una grandissima storia di musica, c’è sempre e inevitabilmente una grandissima storia di uomini.
Aretha era una donna enorme, in tutti i sensi. Nella voce. Nella potenza dello sguardo. Nell’energia. La sua vita è forse stata meno drammatica di quella di Billie Holiday, ma di certo altrettanto dura e complessa. Per cantare in quel modo, per esprimere quella musicalità, non basta possedere il talento naturale che, sin da piccola, ha baciato Aretha in fronte mentre cantava nel coro gospel durante le cerimonie religiose (suo padre, figura discussa e ambigua in tutte le biografie della cantante, era il pastore della New Bethel Baptist Church a Detroit). Lei, la “meno belle di tutte le figlie”, in prima fila. E già scintillava. Per cantare come Aretha cantava, bisogna avere un’anima grondante. Possente. Tumultuosa. E aver conosciuto il dolore.
Un po’ come l’animo straordinario della gente di Harlem, che alla fine abbraccia anche una sconosciuta intrusa come me nell’eco del battito di questo profondo coinvolgimento popolare, nella sua diversità così lontano e così vicino.
A quattro fermate da qui, si ritorna sulla Lexington, dove Manhattan, ancora ignara del coronavirus, appare furiosa nella sua incasellabile bellezza. Qualcuno ha scritto una frase sull’asfalto, che ho fotografato: l’America ha due cuori, uno bianco e uno nero. L’amore che cantava Aretha li unisce entrambi.
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