Fran Lebowitz (e Martin Scorsese): una vita (divertente) a New York
“Pretend it’s a city”, la miniserie di Martin Scorsese uscita da poco su Netflix, ha come protagonista la sua amica Fran Lebowitz, scrittrice che invece di scrivere legge e a volte chiacchiera per il pubblico, e qualche volta per la televisione (i due avevano già girato insieme “Public Speaking” per la HBO nel 2010), su una grande varietà di temi, molti riconducibili alle cose che non sopporta (i turisti), a quelle che non le interessano (Internet), a quelle che ama tremendamente (i libri), a quelle che ama pur irridendole in continuazione.
Tra queste c’è la Città, proprio nel senso woodyalleniano di “New York era la sua città, e la sarebbe sempre stata”. La città dove succede sempre qualcosa, quella piena di targhe per terra che guarda solo lei: “fai finta che sia una città”, dice nel titolo, un luogo dove abitano altre persone oltre te, non è stupefacente? La città di otto milioni di persone dove nessuno si può permettere di abitare: “Non sai rispondere quando ti chiedono perché ci vivi, ma disprezzi chiunque non abbia il coraggio di farlo”.
Questo è il tono delle sei puntate, pungente e spigoloso e libero, un tono che la accompagna leggero nella New York pre-pandemica, nella metro, per strada, nelle librerie, nelle biblioteche, e c’è pieno di gente e nessuno ha la mascherina e ti sembra di respirare insieme a lei quell’odore di metropoli, quella puzza di gente ammassata nella metropolitana, e ti manca tutto, e soprattutto ti manca ridere insieme ai tuoi amici, come fa lei insieme a Scorsese, che ride per tutte e sei le puntate, e che è suo amico da così tanto tempo che nessuno dei due si ricorda precisamente da quando (“Ci saremo conosciuti a una festa, io vado a molte più feste di lui ed ecco perché lui ha fatto molti film e io ho scritto pochi libri”).
Ma il raggio delle sue amicizie comprende Charles Mingus, Toni Morrison, Andy Warhol, Robert Mattlethorpe, quindi perché stupirsi. “Io odio i soldi ma amo le cose. Se odi i soldi e odi le cose va tutto bene perché sei il Dalai Lama. Io non amo lavorare, a me piace stare sdraiata a leggere, che non è una professione. Comprare una casa al di sopra delle mie possibilità mi ha fatto sentire molto americana”. Lebowitz, racconta a un basito Spike Lee, era in prima fila al primo incontro tra Alì e Fraser, “perché una mia amica conosceva Frank Sinatra”, ha rifiutato di andare a una cena in onore di Leni Riefenstahl alla quale erano invitate 12 persone, e quando parla del #metoo dice “I primi 40 che hanno beccato, li conoscevo tutti”.
“Noi siamo arrivati a New York perché eravamo gay, quindi c’era alta densità di gay arrabbiati in giro, cosa che fa sempre bene a una città, e che poi diventarono gay felici, perché New York era divertente”: Fran Lebowitz, che ha 70 anni e vive di parole, che trova già abbastanza sfidante ritirare i vestiti dalla lavanderia senza minacciare o essere minacciata, che ama le feste e i bambini piccoli perché non sono mai noiosi, che baciava i libri quando le cadevano di mano, che è arrivata a New York a 18 perché voleva fare la scrittrice, che dice di vivere in uno stato di rabbia perenne, ha iniziato a lavorare sulle riviste recensendo film di serie B perché “cercavo qualcosa di divertente di cui scrivere”.
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