George Floyd e il popolo del Blues, dagli Stones a Bruce Springsteen
Il popolo afroamericano degli Stati Uniti possiede un destino singolare: discriminato e oppresso, sfruttato socialmente ed economicamente, ha sempre avuto tuttavia un ruolo di prima grandezza nel formare il patrimonio culturale e artistico americano. Mi limiterò ad alcuni esempi.
Nel 1867 un gruppo di intellettuali bianchi pubblicò un’antologia intitolata “Slaves Songs of The United States”. Questi spiritual, intonati dagli schiavi nelle piantagioni dell’800, entrarono nelle sale da concerto grazie ai Fisk Jubilee Singers, progenitori di una serie di cantanti del ‘900 come Paul Robeson, Mario Williams, Mahalia Jackson e il padre del Blues Howlin’ Wolf.
Mentre a New Orleans i musicisti portavano al suo massimo quella forma musicale chiamata Jazz, un complesso bianco chiamato Original Dixieland Jazz Band portava a New York un’imitazione edulcorata di ciò che accadeva in Louisiana. Negli anni Trenta ci fu poi tutta l’evoluzione del genere, da Duke Ellington a Count Basie, poi “imitati” da Benny Goodman e Glenn Miller.
Anche ciò che accadde a metà degli anni ’50, con il Rock ‘n’ Roll, proviene da lontano. Gente come Chuck Berry, Bo Diddley e Little Richards erano gli idoli di Elvis Presley. E neppure l’Inghilterra rimase a guardare.
I migliori complessi pop-rock degli anni Sessanta si formarono su una radice Blues, di cui il portabandiera bianco divenne John Mayall. In ogni caso, anche in Europa, il Blues è sempre rimasto il frutto della cultura di un intero popolo, quello afroamericano, uno dei più importanti fatti creativi autenticamente popolari del secolo scorso. E nella sua evoluzione, tra infinite variabili, ha continuato a rappresentare la visione del mondo di un gruppo etnico-sociale in lotta per la propria libertà.
C’è dunque un profondo senso di gratitudine, oltre che di legittima rivendicazione etica, nel sostegno che musicisti come i Rolling Stones, Bruce Springsteen e molti altri, unitamente ai grandi colossi discografici anglo-americani (Warner, Columbia ed Abbey Road Studios) hanno dato alla protesta scoppiata dopo la recente uccisione dell’afroamericano George Floyd per mano della polizia di Minneapolis.
Uno dei messaggi più accorati è arrivato proprio da Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood e Charlie Watts. Nessun stupore, visto che i Rolling Stones hanno preso il nome da una canzone di Muddy Waters e sono il gruppo inglese che meglio incarna lo spirito dei grandi bluesman del passato – nel 2016, la band gli ha reso nuovamente merito pubblicando “Blue & Lonesome”, album di cover di vecchi brani.
E’ il 4 giugno 2000. Bruce Springsteen, in concerto ad Atlanta, canta per la prima volta la canzone “American Skin (41 shots)”, che inserirà nel Live al Madison Square Garden del 2001 (c’ero anch’io e dietro le quinte lo intervistai per Libertà) e infine nell’album in studio “High Hopes” del 2013.
I 41 colpi d’arma da fuoco del brano sono gli stessi che la polizia di New York ha sparato ad Amadou Diallo, una tragica notte del 1999. Il giovane studente 23enne, immigrato dalla Guinea, uscì a comprarsi qualcosa da mangiare dopo una lunga giornata di lavoro e venne fermato dai poliziotti, sulle tracce di un ricercato. Quando Amadou infilò le mani in tasca per prendere i documenti, la polizia gli sparò “41 shots”, di cui 19 andati a segno.
La vicenda di George Floyd lo ricorda terribilmente, tanto che il Boss, qualche giorno fa, gli ha dedicato la canzone durante il programma radiofonico che sta tenendo in questo periodo.
“Questa canzone è lunga otto minuti – sussurra Springsteen al microfono -. Ecco quanto ci ha messo George Floyd a morire con il ginocchio di un ufficiale di Minneapolis premuto sul collo. È parecchio tempo. Ecco quanto a lungo ha implorato aiuto e ha detto che non riusciva a respirare. La risposta dell’ufficiale non è stata altro che silenzio e peso. Poi non aveva più battito. Possa riposare in pace”.
E’ una pistola, è un coltello
è un portafoglio, questa è la tua vita
Non è un segreto
Nessun segreto, amico mio
Puoi essere ucciso solo perché vivi
nella tua pelle americana
41 colpi, 41 colpi, 41 colpi
La campagna antirazzista dei musicisti si chiama TheShowMustPaused, aderisce a BlackLivesMatter e riporta il pensiero a radici lontane. Uno dei libri fondamentali sul rapporto tra il Blues originale, i musicisti afroamericani e la loro vita negli Stati Uniti lo ha scritto LeRoi Jones nel 1963. Il “poeta blues”, noto in Italia per essere stato ospite al primo Festival internazionale dei poeti di Castelporziano (insieme ad Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e William Burroughs – mio Dio!), è conosciuto anche come Amiri Baraka, derivazione del suo nome d’origine africano, che a un certo punto decise di adottare. Il saggio s’intitola “Blues People: Negro Music in White America” ed è tutt’altro che datato. Le storie rimandano all’identità di George Floyd, ultima vittima di un lungo elenco.
LeRoi Jones, scomparso nel 2014 a 79 anni, dopo esser stato perseguitato in virtù della sua provenienza e della sua lotta sociale, finì a insegnare all’Università di Yale e alla George Washington. Suonava il pianoforte, la tromba e la batteria. In una delle ultime interviste, si definiva “attivista dei movimenti radicali per la dignità e l’uguaglianza dei neri in America. Questo è come vorrei essere ricordato, non solo perché è l’unica cosa che conta, ma perché altri raccolgano il testimone. Abbiamo davanti una lunga strada”.
© Copyright 2024 Editoriale Libertà
NOTIZIE CORRELATE