Guido Harari, fotografo delle rockstar. «Ritraggo il lato umano, è il più vero»
Vibrano le immagini di Guido Harari, evocative come il testo di una canzone d’autore. Il punto di forza è la profondità dello sguardo del fotografo, che è grande amico degli artisti ritratti.
L’intimità è testimoniata dalla mostra “Incontri – 50 anni di fotografie e racconti”, fino al primo aprile 2024 alla Fabbrica del Vapore di Milano, a partire dalla dedica di Lou Reed sulla celebre fotografia del tenero abbraccio con la moglie Laurie Anderson (in esposizione e nell’imperdibile catalogo, che contiene tutti gli scatti di Harari). Ed inoltre dalle parole di tanti artisti, tra i quali Paolo Conte, che nel documentario Rai “Sguardi randagi” gli dice: «Ho incontrato fotografi di alto livello, tu sei in testa a tutti».
Nato a Il Cairo, Guido Harari fotografa da sempre. Ha iniziato come autodidatta e, cresciuto a Milano, è entrato subito a far parte del mondo della musica. «Di fatto, ho unito due passioni: quella per la musica e quella per la fotografia», spiega Harari.
Lei non solo ha vissuto l’epoca d’oro della musica rock, ma anche quella del cantautorato e del teatro canzone.
«Ho iniziato, come tanti miei coetanei, ascoltando la radio, che trasmetteva anche interi dischi in anteprima, ad esempio “Revolver” dei Beatles. Radio Luxembourg era il riferimento. Il resto è arrivato dopo, come una valanga».
Quando avvenne la vera svolta per Harari fotografo?
«Collezionavo giornali, copertine di dischi, locandine… ma la prima molla che mi ha spinto a passare dall’altra parte della barricata è arrivata nel 1965, quando i Beatles suonarono al Vigorelli. Sulla scia dell’entusiasmo, un mese dopo andai a un concerto dei Rokes perché facevano anche loro del beat anglosassone. Avevo 12 anni. Col tempo, è poi nata una bella amicizia con Shel Shapiro, che mi accolse subito benissimo. Anni dopo l’ho ritratto spesso, catturando la sua aria da pirata».
Altre grandi amicizie furono quelle con Jannacci, Gaber, Dario Fo…
«Di Jannacci mi parlò per la prima volta un compagno di classe. Io ascoltavo musica rock e lui, sorpreso: “Non sai chi è Jannacci?”. Poi lo vidi insieme a Gaber e a Dario Fo in tv. Mi colpì quel mondo meno ritmato, alle prese con le disgrazie della vita quotidiana. Conoscerli è stato un privilegio: erano artisti che accendevano la passione. E alla fine, erano come parenti, cugini… Ci siamo trovati in perfetta sintonia».
Altri incontri importanti?
«Negli Anni 80 Pino Daniele, musicista eccezionale, Gianna Nannini, più tardi Fabrizio De Andrè, grazie alla Pfm. Entrammo in sintonia, piano piano. Dopo aver amato le copertine dei dischi da ragazzo, le realizzavo io. Ma all’inizio ero più interessato a fotografare i musicisti dal vivo che a ritrarli».
Capitolo rockstar: un tempo si avvicinavano facilmente?
«Cercare di intrufolarsi in un concerto sin dal primo pomeriggio era un classico. E il caso volle che i discografici apprezzassero molto i cani sciolti come me, giovane appassionato.
Iniziai a fare amicizia con gli artisti, all’epoca si potevano avvicinare senza problemi andando all’hotel dove si sapeva che alloggiavano o alla porta del backstage. Il segreto per instaurare un rapporto con gli artisti non era tanto la professionalità, che stavo ancora costruendo infilandomi nelle redazioni dei giornali musicali, ma la mia sensibilità. Realizzavo fototesti: erano interviste abbinate alle foto che mi permettevano di costruire una certa complicità con i soggetti. Non li ho mai vissuti all’ombra del loro mito, ma per com’erano nel momento in cui li incontravo».
Due nomi: Lou Reed e Laurie Anderson.
«Lou era un artista catapultato nel futuro, amava la fotografia e a me interessava fotografarlo come persona, non come personaggio. Laurie Anderson era un’altra artista che amavo. Negli anni Duemila, loro due divennero una coppia e diventammo ancora più amici. Durante una tournée in cui suonavano assieme, scattai alcune foto semplici, personali. Mi ringraziarono per aver fatto parte del loro sogno. E’ sempre emozionante scoprire quando una foto che ho scattato, al di là della tecnica, è diventata importante per la vita degli artisti che ho ritratto».
I suoi ritratti, a un certo punto assomigliavano sempre più ad opere d’arte.
« Ho chiamato questa operazione Degradanza, scurendo le foto e aggiungendo i colori. Preparavo una mostra a Pistoia e volevo cambiare ».
Quindi l’approdo ai reportage.
«Ero annoiato, così ho iniziato a fare dei reportage. Viaggiavo, scoprivo luoghi. Nel 2002 è arrivata la proposta di Progetto Sorriso. Sono andato con una équipe medica in un ospedale del Bangladesh dove operavano bambini con malformazioni facciali. E’ stata un’esperienza fortissima, diventata libro e mostra con opere all’asta per finanziare il progetto. Un’altra tappa di crescita».
di Eleonora Bagarotti
© Copyright 2024 Editoriale Libertà
NOTIZIE CORRELATE