“La donna che visse due volte alla finestra sul cortile”, non era così?

“Sei poco più di un voyeur”, dice James Bond liquidando Franz Oberhauser e la sua organizzazione di spionaggio: ma il voyeurismo al cinema ha una storia lunga, famosa e dignitosissima, e di personaggi che guardano, spiano, registrano le vite degli altri ne abbiamo visti tanti, messi in scena dai più grandi, Coppola, De Palma, Antonioni, Lynch, fino a quella pietra miliare che è “La finestra sul cortile” di Alfred Hitchcock, uno che ha insegnato a tutti cosa significa fare del cinema.

Direttamente da quel film deriva “La donna alla finestra”, produzione Netflix firmata dall’inglese Joe Wright (“Espiazione”, “L’ora più buia”), sceneggiata dal premio Pulitzer Tracy Letts e con un cast di altissimo livello che comprende Amy Adams, Julianne Moore, Gary Oldman e Jennifer Jason Leigh: tratto dal bestseller di A. J. Finn, pseudonimo per Dan Mallory, un autore dalla storia così controversa che è diventata un caso così denso di twist che a sua volta meriterebbe una trasposizione cinematografica (chiamate gli sceneggiatori, parte 1) , il film racconta la storia della psicologa infantile Anna Fox (Amy Adams), che soffre di una grave forma di agorafobia e vive da sola a New York lontana dal marito (Anthony Mackie) e dalla figlia. E’ in cura da un analista, è sotto psicofarmaci, beve troppo, ha un gatto e ama i vecchi film (guardandolo mi sembrava quasi una profezia, Cassandra, sei tu?)

 

Girato nel 2018, “La donna alla finestra” anticipa le atmosfere pandemiche: dalla finestra della sua enorme casa (nel seminterrato affitta a un inquilino) Anna assiste al trasloco dei Russell, che arrivano da subito a invadere spazi della sua vita e della sua casa: prima si presenta il figlio Ethan, poi la madre Jane, con la quale Anna lega subito (sono così belle e talentuose e funzionano così bene Amy e Julianne in cucina davanti al vino, che mi chiedo perché non abbiano sviluppato tutto un film intorno a loro due, chiamate gli sceneggiatori, parte 2), e infine il padre Alastair, che irrompe pretendendo risposte e mettendo subito in chiaro di stare alla larga da loro.

 

Anna è senza famiglia, e non le dispiace l’idea di ricostruirne una, ma di fronte a tanti strani comportamenti si incuriosisce, comincia ad indagare, finché non crede di assistere a un omicidio e coinvolge la polizia, che avvierà un’indagine che metterà ulteriormente alla prova la sua salute mentale.

Non si può svelare oltre, se non che lo script omaggia il noir hitchcockiano anche oltre la più evidente filiazione, cita le sequenze oniriche di “Io ti salverò” incrociate con il sonno artificiale di Anna, evoca “La donna che visse due volte” e arriva al De Palma di “Omicidio a Luci Rosse” (ma sono più di 50 i titoli citati nel libro, e solo alcuni sono approdati nel film), che la regia di Wright come sempre ha stile e personalità, guarda dalle porte, inquadra i suoi protagonisti riflessi nei vetri, celebra il ruolo salvifico e minaccioso del telefono come nei vecchi classici anni ’50, e insomma per tre quarti tutto funziona e poi non so come (probabilmente a causa dei tanti passaggi di mano della produzione, le scene rigirate, i tagli, anche qui dietro alla lavorazione c’è una storia piuttosto complessa, ma lascerei stare gli sceneggiatori) arriva uno spiegone che ti toglie il fiato, e tutto perde tono, elasticità e muscoli e precipita verso un finale pulpeggiante, ma non è colpa del finale pulpeggiante, è che la storia perde forma, si spappola sotto ai tuoi occhi e non ti resta che aprire del vino rosso e chiuderla lì.

 

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