“La piovra” 40 anni dopo, il cinema d’impegno alla conquista della tv
Potrebbe sembrare strano che una rubrica come Cinepop, dedicata appunto al cinema, si occupi di una serie tv come “La piovra”. Non lo è invece. «Nel momento in cui i produttori – Sergio Silva, la Rai – pensarono di portare i temi della mafia sul piccolo schermo secondo una logica più organica rispetto al passato, affrontando quei legami che oggi ci paiono abbastanza scontati, cioè i rapporti tra malavita, politica e sistema finanziario, realizzando una sintesi con grande abilità, il cinema entra nella tv partendo dalla scelta di Damiano Damiani, regista popolare ma impegnato, che aveva fatto della spettacolarità cinematografica uno dei suoi punti forti», premette Massimo Moscati, autore del libro “La piovra. Guida alla serie televisiva che ha conquistato il mondo” (Shatter edizioni), dove ricostruisce ampiamente anche come la Cupola sia stata rappresentata nel cinema italiano, oltre a scandagliare le dieci stagioni di una saga andata in onda sulle reti Rai dall’11 marzo 1984 al 17 gennaio 2001.
Damiano Damiani firmò soltanto la prima serie.
«C’era un limite, che visse proprio lo stesso Damiani: all’epoca esisteva ancora il concetto dello specifico filmico, per cui lo schermo dell’elettrodomestico, dotato di tubo catodico, aveva la forma di un quadrato e bisognava girare i film privilegiando i primi piani, concentrandosi sulla parte centrale dell’immagine. Oggi non è più pensabile. Anche grazie alla diffusione delle piattaforme e dei televisori widescreen è evidente che quando si fa televisione si fa cinema. Le due cose sono mescolate. Anzi, diciamo che ci sono serie che sono grande cinema e che poi hanno ispirato il cinema. Tecnicamente non c’è più la necessità di impostare le riprese per adattarle all’elettrodomestico».
Invece Damiani si dovette scontrare con vincoli al tempo insormontabili.
«“La piovra” diretta da lui e la successiva, per la regia di Florestano Vancini, che in qualche modo seguiva la tradizione, pativano queste logiche. Se prendiamo “Il giorno della civetta” di Damiani, c’è una spettacolarità a livello di grande schermo che non è paragonabile a ciò che il regista è riuscito a fare con “La piovra”. Dalla terza serie ci sarà l’ingresso di Luigi Perelli, autore assolutamente sconosciuto, che però, grande appassionato di cinema americano e di cinema d’azione, prendendo anche spunto dal poliziottesco imperversante negli anni Settanta nel cinema italiano imprimesse una marcia in più, riuscendo a introdurre quella spettacolarità mancante nelle prime due serie, pur molto violente. Dobbiamo considerare che “La piovra” doveva rispondere anche a un altro problema».
Quale?
«I produttori temevano che un tema come quello della mafia potesse interessare solo un pubblico maschile. Inserirono così elementi privati, storie d’amore, il matrimonio in dissoluzione del commissario Cattani, soggetto a innamorarsi delle sue partner: tutti aspetti che si riteneva potesse attrarre anche un pubblico femminile».
Si può comunque affermare che “La piovra” abbia segnato uno spartiacque.
«Sì . Con “La piovra” tecnicamente nasce la miniserie, anche se in realtà poi si è trattato di una serie molto lunga. Ha introdotto le dinamiche delle serie televisive come noi le conosciamo: parlando dell’Italia, “Romanzo criminale” piuttosto che “Gomorra”. Dobbiamo riconoscere, a quarant’anni esatti di distanza, che prima de “La piovra” non c’era questo tipo di impostazione, né a livello nazionale, né all’estero, tant’è che “La piovra”, in parte una co-produzione con la Francia, cui successivamente si aggiunsero Germania e Austria, venne venduta in tutto il mondo, arrivando in 150 Paesi. Poi si devono considerare i temi sviluppati: nella televisione generalista, legata alla famiglia, per la prima volta entra una tematica comunque violenta».
Qual è la serie de “La piovra” che più ha resistito al passare del tempo?
«Le prime quattro serie con Michele Placido, indipendentemente dal cambio di registi e di sceneggiatura – a Ennio De Concini, il nume tutelare della serie a livello di scrittura, subentrano Rulli e Petraglia, due firme storiche del cinema italiano. Tutto diventa un unico corpo, condizionato dalla fortissima presenza di Placido, un’icona de “La piovra”. Quando Placido decise di abbandonare la serie, girarono un secondo finale qualora l’attore ci avesse ripensato. Dopo la sua uscita, non si ottenne più la tensione delle prime quattro serie, nonostante a livello di pubblico “La piovra” continuasse ad andare molto bene e anzi venne veduta a molti Paesi che non avevano acquistato le serie precedenti».
Nel libro si sofferma anche sulla figura del creatore de “La piovra”.
«Fu Nicola Badalucco, uno sceneggiatore importante, non divo. Aveva esordito sceneggiando “La caduta degli Dei” di Luchino Visconti. Era un giornalista politico, scriveva per L’Avanti e si era occupato anche di problemi di mafia. Pur essendo nato a Milano, aveva vissuto fin da bambino a Trapani, la città anonima sfondo de “La piovra”. Fu Badalucco a concepire la struttura de “La piovra”. La sceneggiatura venne poi presa in mano da De Concini, il principe degli sceneggiatori italiani che plasmò la materia».
di Anna Anselmi
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