Le cose che contano davvero: “Killers of the Flower Moon”
“Killers of the Flower Moon”, il nuovo film di Martin Scorsese, è lungo: dura tre ore e mezza e li vale tutti dal primo all’ultimo minuto, quindi il mio invito è a non essere superficiali né a intitolarsi montatori (Thelma Schoonmaker perdonaci tutti), ma a andare in sala e farsi travolgere dalle immagini, dal sentimento, dalla rabbia, dimenticandoci che ormai abbiamo tutti la soglia di attenzione di uno scoiattolo drogato.
Forte di una storia solidissima, di dialoghi intrisi di un umorismo molto moderno e del solito eccellente comparto tecnico (fotografia, montaggio e musiche in primis, ma tutto concorre a una visione suntuosa), Scorsese ci restituisce un pezzo di storia americana poco conosciuta.
I personaggi di Martin Scorsese sono gangster in ogni epoca, anche nel vecchio west, e in questo racconto epico e tragico e vero dello sterminio di un popolo, basato sul bestseller omonino di David Grann e sceneggiato da Eric Roth e dallo stesso Scorsese, si muore spesso e si muore male.
Il film è ambientato nell’Oklahoma degli anni ’20 e mette in scena gli omicidi seriali dei membri della nazione Osage, diventati un popolo potente dopo la scoperta di enormi quantità di petrolio sulla loro terra (terra che avevano acquistato dopo essere stati cacciati dal Kansas dai coloni bianchi).
Seguendo un piano crudo e lucidissimo, i bianchi “tutori” cominciano a eliminare gli indiani per accaparrarsi i loro beni e le loro eredità, dando vita a una serie di crimini efferati conosciuti come i ‘Regni del terrore’, che i nativi non sono per niente disposti a lasciar cadere nel nulla, fino ad arrivare all’FBI di J. Edgar Hoover, praticamente appena nata.
La narrazione si concentra su un trio di protagonisti: Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) è un reduce di guerra non troppo sveglio che torna a Fairfax richiamato dallo zio William Hale (un grandissimo Robert De Niro, che torna a un personaggio capace di usare e dimostrare tutta la sua età): Hale è “the King of the Osage Hills”, una figura di grande influenza nella comunità, ed è al centro della macchina di sfruttamento degli Osage.
Manipolatore e criminale, Hale spinge Ernest verso Mollie Kyle, una ricca Osage (Lily Gladstone) che riesce a vedere il cuore di Ernest pur essendo conscia delle macchinazioni dei bianchi ai danni della sua comunità. La ieratica presenza di Mollie e le sue precise e quiete parole continuano a spiazzare Ernest, vittima e carnefice, combattuto tra l’amore per la moglie e le pressioni, poi minacce, dello zio, mentre assiste addolorato al progressivo sterminio della famiglia di Mollie.
“Killers of the Flower Moon” è stato definito dallo stesso Scorsese “un western che si svolge tra il 1921 ed il 1922 in Oklahoma in cui quelli che vediamo sono senz’altro dei cowboy, ma oltre ai cavalli hanno pure delle automobili”. In quella regione, insieme ai soldi, dice ancora il regista “sono sbarcati gli avvoltoi, l’uomo bianco e tutto è andato perduto. Lì la criminalità aveva un controllo così capillare su ogni cosa che era più facile andare in galera per aver ucciso un cane che per aver ucciso un indiano”.
Scrive David Foster Wallace su Dostoevskij in “Considera l’Aragosta”: “Il punto è che Dostoevskij scriveva romanzi sulla roba che conta davvero. Scriveva storie sull’identità, il valore morale, la morte, la volontà, l’amore sessuale vs l’amore spirituale, l’avidità, la libertà, l’ossessione, la ragione, la fede, il suicidio”. Che è esattamente tutto quello che si trova nel cinema di Scorsese, che continua a fare film su tutto quello che conta davvero, e ci mette davanti a una storia d’amore, di soldi, di sangue, che mescola i generi e vive e si nutre del nostro stesso sapere scorsesiano, di quei sessant’anni di visione portata sullo schermo, dell’odore dei tombini delle mean streets che diventa la polvere del deserto, del male che è dentro la tua casa e dorme vicino a te nel letto.
Non sono una fanatica: non ho la sensibilità per apprezzare le sue opere mistico-religiose e non ho amato “The Irishman”, ma è davanti ai film di Martin Scorsese che torno quando ho bisogno di ricordarmi che cosa è cinema, e cosa no.
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